Al Giro vince Taco, mai fidarsi di chi spinge i rapporti lunghi
Mai fidarsi di chi spinge i rapporti lunghi. Tre anni fa alla Dwars door Het Hageland, una delle classiche corse fiamminghe, in uno di quegli arrivi in cui in una manciata di secondi ti giochi una giornata di fatica tra muri, fango e sterrati vince Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert arriva terzo. Nel bel mezzo, a una decina di centimetri, si piazza Taco van der Hoorn, un ragazzone olandese di un metro e novanta per una settantina di chili abbondanti nato 27 anni fa tra i canali di Rotterdam dove in bici si va da piccoli prima a scuola poi ovunque. Anche a far gare se uno ha talento. Ma la bici è è strana oltre ad essere un mezzo meraviglioso. Così a nulla vale mettersi dietro a fenomeni come Van Aert se poi, un paio di anni dopo, fai fatica a trovare contratto perchè ti dice male , perchè mentre ti stai allenando sui Pirenei finisci sotto un’auto che ti spegne un bel po’ di sogni e un pezzo di carriera. Addio contratti. Addio alla Jumbo-Visma che aveva scommesso su di te ma ora non ha più voglia di scommesse al buio. Van der Hoorn frena. Ma non si ferma. Firma un contratto con la Beat cycling, una formazione continental che non è probabilmente ciò che sognava ma è l’unico modo per restare a galla. Per non uscire dal giro scritto in minuscolo. Perchè nel Giro, questa volta scritto in grande, ce lo riporta quest’anno la Intermarché-Wanty-Gobert Matériaux, all’esordio nella corsa rosa, una squadra non attrezzata per vincere negli sprint o negli arrivi in salita ma che le vittorie se le deve inventare proprio laddove non c’è speranza. E oggi nella Biella-Canale, terza tappa dopo le schermaglie iniziali, la fuga di Van der Horn parte quasi subito insieme ad un manipolo di altri eroi di giornata: di speranze di arrivare al traguardo non ce ne sono. Un film già visto. Buono per raccattare qualche inquadratura che fa felici i familiari e gli sponsor in attesa di rientrare nei ranghi per un finale già scritto. Ma a tre chilometri dall’arrivo, dopo una giornata di fatica, l’olandese che a Rotterdam da piccolo pedalava su una mountainbike, è ancora là davanti da solo. Mette giù la testa, non si gira e quei sedici secondi che lo separavano dal gruppo che non ha fatto i conti giusti li difende con il cuore e con i denti ma soprattutto con le gambe: “È una vittoria incredibile- spiega al traguardo- penso di essermela meritata. Ancora non me ne rendo conto. C’è sempre il 0,5-1% di possibilità che la fuga ce la faccia, so che il percorso mi andava bene, anche nel finale ci ho creduto fino in fondo. Ci ho provato con l’idea in testa che sarei stato comunque l’ultimo ad arrendersi anche se dipendeva un po’ da me e un po’ dal gruppo…Però questa mattina non ci avrei creduto». Non ci credeva Taco, non ci credeva Peter, non ci credeva Elia non ci credevano quasi tutti gli altri. Però alla fine è andata come era andata tre anni fa ad Aarschot, nella provincia del Brabante Fiammingo in Belgio, quando Taco arrivò tra Van de Poel e Van Aert, sconosciuto tra le promesse. Non fu un caso allora, non è stato un caso oggi. Mai fidarsi di chi sa spingere i rapporti lunghi…