Sprint e medaglie negli europei di ciclismo che si chiudono oggi sulla pista olandese di Apeldoorn. Sprint e ricordi che riportano un po’ ( un bel po’) indietro nel tempo quando ancora a Milano c’era il Palazzone dello sport, quello che crollò dopo la nevicata dell 1985, e si correvano le Sei Giorni. Anzi una: la Sei Giorni di Milano. Che era uno spettacolo nello spettacolo: nel pomeriggio porte aperte ai ragazzi, ai bambini che andavano col papà, ai curiosi, agli appassionati più fissati che si prendevano anche un giorno di ferie per andare ad applaudire Francesco Moser, Beppe Saronni, Patrick Sercu, Renè Pijnen. Poi, prima di cena, cambiava lo scenario per le gare delle sera e della notte sempre  intervallato da un spettacolo musicale di una starlette  apprezzata più che per le sue doti canore per la sua avvenenza generosamente esibita. Poi c’erano gli “sciuri”, i signori e le signore  in paltò e pelliccia, che le gare serali le seguivano per quel poco che loro interessava comodamente attovagliati ai tavoli del ristorante al centro della pista. Oltre all’Americana, che faceva la classifica, uno dei momenti più spettacolari delle sei Giorni era quando scendevano in pista le moto per le gare dietro motore. A parte l’odore degli scarichi, ma allora l’ambientalismo non era l’avanguardia talebana che è diventata oggi, facevano un baccano assurdo. Ed erano assurdi i piloti che guidavano stando in piedi sulle pedane  moto bicilindriche Guzzi o Bwm; erano assurde le bici con una ruota anteriore più piccola e le forcelle montate  al contrario per sfruttare in pieno la scia ed erano assurdi i ciclisti che spingendo  rapporti grandi come padelle stavano attaccati al rullo posteriore applicato alla moto e sfioravano anche  i 90 orari. Erano gare di mezzofondo e quindi duravano un bel po’ per la disperazione degli stayer che probabilmente non vedevano l’ora di tornare nei box a rasserenarsi e per la gioia del pubblico che si spellava le mani ad ogni sorpasso e ad ogni sprint. Le gare dietro motore ormai non ci sono più, quel poco dell’eredità rimasta è stata raccolta dai  “derny”,  versione  molto “light” con scoppiettanti motorini che hanno preso il posto delle grosse cilindrate del passato, Le gare dietro motore erano il ciclismo che fu, roba da olandesi e da fiamminghi. Roba per malati della pista dove una volta s’imparava ad andare in bici e a vincere le volate . C”erano una volta quella moto e c’erano una volta quei piloti un po’ strani in tuta e caschetto, metà centauri metà ciclisti, che si portavano a ruota gli sprinter sulle paraboliche dei velodromi. Un pezzo di storia . Un ciclismo da romantici  però il fascino resta. Intatto come spesso capita per le sfide di una volta.  Trenta, cinquanta, settanta, ottanta, novanta  all’ora a girare in tondo con le moto e i ciclisti, quelli sì “motociclisti”, che si affiancavano, si superavano, si sfioravano e a volte si toccavano. Che diventavano tutt’uno con chi pedalava in scia. Ciclista e pilota, pilota e ciclista, un corpo solo, un solo respiro, un solo gesto e un’intesa che era un misto di perfetta abilità fino a quando, a qualche giro dal termine, moto e bici si separavano come missile e navicella e ci si giocava la vittoria in volata. Era l’alta scuola della velocità. Lì si faceva lo show e lì i velocisti diventano davvero velocisti. E noi lì facevamo scuola…