“The Program”, la solita storia…
“The Program” è tutto un programma. Però scontato. E come una di quelle grandi tappe di montagna dove si annunciano sfracelli poi però tutti hanno paura, si controllano e non accade nulla. E si resta con l’amaro in bocca. C’era tanta attesa per capire come Stephen Frears avrebbe raccontato la vicenda di Lance Armstrong, il “ grande inganno” come recita la locandina del film sul campione texano uscito la settimana scorsa anche nelle sale italiane. Ma si esagera sempre un po’ presentando le cose. A volte troppo. E così poi capita che l’attesa lasci spazio alla delusione o quantomeno perplessi. A breve distanza da “The Armstrong lie”, con il quale già Alex Gibney, in un documentario aveva scandagliato il “Grande Bugiardo”, il 74enne regista inglese di “The Queen”e “Philomena” firma una cronaca puntuale di ciò che in realtà già si sapeva, che già aveva scritto nel suo libro il giornalista del Sunday Thimes David Walsh da cui poi John Hodge ha tratto la sceneggiatura. Vent’anni di vita in poco meno di due ore: troppo poco e troppo in fretta. Ben documentati e ben girati perché la prima ripresa in camera car che ripende una discesa dal Galibier ti lascia senza fiato e perché le immagini delle gare che si inseguono con i filmati delle imprese al tour del campione texano sono sempre credibili. Ma è sempre come se mancasse qualcosa. Manca qualcosa a Ben Foster, che avrà anche passato sei settimane in bici sulle montagne del Colorado per imitare la postura in sella del texano e si sarà anche dopato per entrare nel personaggio come ha raccontato, ma non ha il carisma e gli occhi di ghiaccio che servivano. Perché poi la differenza è tutta lì, gli manca l’anima. E manca tutto a Guillaume Canet che riduce a una macchietta fastidiosa il dottor Michele Ferrari i cui legali hanno già chiesto il sequestro del film citando per danni il ditributore Videa. Infine sono a dir poco imbarazzanti le venti comparse che pedalano in gruppo a cominciare da chi fa sembrare una caricatura anche Alberto Contador. Gli unici a salvarsi sono Chris O’ Dowd, che nei panni del cronista del Sunday Thimes che scoperchia il pentolone ci sta davvero comodo, e Jesse Plemons perfetto e credibile nell’impersonare dubbi e tormenti del mormone Floyd Landis vincitore di un Tour nel 2006 che poi gli fu tolto. Discorso a parte per Dustin Hoffman nei panni dell’assicuratore Bob Hamman che è solo uno spreco. Ma al di là di tutto, dei personaggi, di un tumore raccontato come fosse un’ influenza, di una fondazione che ha dato la forza a migliaia di persone di lottare contro il cancro liquidata come una slot machine, del sospetto a prescindere, ciò a cui The Program non dà risposta è il dubbio di sempre: Armstrong ha vinto sette Tour de France solo perchè si dopava o ha scritto la storia del ciclismo moderno perchè ha fatto ciò che in quell’epoca facevano tutti però era anche un campione?