Colnago, la storia continua…
C’era una volta la bici e c’è ancora. Ed è bello ricordarlo oggi nel giorno dell’84mo compleanno di Ernesto Colnago, un uomo che per il ciclismo è un pezzo di storia e di presente e per cui il tempo sembra essersi fermato. È una favola tutta da raccontare la sua. E l’’Ernesto, come dicono dalle sue parti, come dicono in Brianza terra di mobili e «danè» ma anche terra dove si lavora sodo e si costruiscono biciclette, è uno che la sa raccontare. Ottantaquattro anni che si sono fermati a settanta. Ottantaquattro anni mese dopo mese, giorno dopo giorno lavorando sodo, perchè una volta era tutto più difficile di adesso, perchè una volta la vita bisognava guadagnarsela un po’ più di oggi. Perchè una volta era una volta e oggi è un altro mondo in cui però l’Ernesto continua a scrivere la sua storia. Cominciata in una piccola officina di 25 metri quadrati al numero 10 di via Garibaldi a Cambiago. A volte il destino ce l’hai scritto in fronte o nel cuore. L’Antonio e l’Elvira, i suoi genitori, volevano che continuasse a fare il contadino perché la terra c’era, rendeva e un paio di braccia in più facevano comodo, ma l’Ernesto lo sapeva che sarebbe finita come è finita. La sua storia se l’è scritta tutta da solo e oggi quel bugigattolo «5×5» dove metteva i raggi alle ruote è in una fabbrica modello che produce biciclette che girano il mondo e sono uno dei biglietti da visita del «made in Italy». Ottantaquattro anni guardando avanti, perché bisogna sempre guardare avanti. Va così. Ottantaquattro anni come sempre: “Perchè la mia vita è questo lavoro- racconta al telefono quando lo chiami per fargli gli auguri- e se non lavoro muoio…”. Ottantaquattro anni così e anche stamattina alle sette puntuale in azienda: <Perchè stanotte ero emozionato- racconta- Mi sono svegliato alle quattro e mezzo e non riuscivo a dormire. Allora mi sono messo un’oretta su un rullo, poi una doccetta e poi sono andato a lavorare…Perchè ghe semper un quaicos de fa..”. Ottantaquattro anni e un’intervista che gli avevo fatto l’anno scorso per le pagine del Giornale e che oggi si può anche rileggere….
Ma ancora non è stufo di venire in «bottega» tutte le mattine?
«Stufo? Stufo proprio no. Certo è una bella fatica ma il ciclismo è la mia vita e questo è il mio posto. Poi sa cos’è? A una certa età si dorme poco quindi non è che mi pesa venir qui presto».
E tutto comincia nell’officina del Dante Fumagalli per due sacchi di farina la settimana…
«Sì, cominciò tutto così. Mio padre non voleva, poi però alla fine mi lasciò fare. La mattina andavo a montare e smontar bici, la sera a scuola serale. Eravamo in tre nella classe del maestro Caprotti: uno è diventato ingegnere, l’altro fa il medico e io il ciclista…».
Beh, ciclista… La sua oggi è una delle aziende simbolo del made in Italy nel mondo…
«Sì, ma guardi che siamo rimasti in famiglia. Qui lavora mia figlia Anna con il marito Vanni, mio nipote Alessandro che si occupa di marketing, mio fratello Paolo e il figlio Alessandro che è il direttore vendite. Tra Cambiago e Cascina a Pisa dove c’è il nostro centro di verniciatura siamo una quarantina di dipendenti… È una famiglia. E infatti la settimana scorsa per il mio compleanno mi hanno organizzato tutti una festa a sorpresa qui in fabbrica. Non sapevo niente, mi sono quasi commosso».
E da sempre fate tutto qui?
«Sì, sempre qui. Dalle officine di Cambiago escono ogni anno 4500 telai in carbonio C60, che sono il nostro modello di punta e tremila telai V1 che sono quelli monoscocca in carbonio. Quindicimila bici complete vengono costruite e assemblate nel centro di produzione di Taiwan che lavora con gli stessi materiali e gli stessi parametri che utilizziamo qui».
Show room, sale progetti, automazione e un museo che fa da collante a tutta questa storia. Il bugigattolo di 5 metri per 5 dove è cominciato tutto, non se lo ricorda neanche più?
«E invece me lo ricordo eccome. Guai a dimenticarsi da dove si è partiti…».
Erano gli anni…?
«Tanti anni fa. La mia passione è sempre stata la bici. Amavo le corse e infatti correvo. Correvo e lavoravo. La prima vittoria la barattai con un abito di gabardine. Quindici, sedici anni, gare avventurose, mica come adesso. Poi a 17 anni nella Milano-Bussetto feci un brutto volo e mi spaccai una gamba. E quella sfortuna diventò la mia fortuna».
Perché?
Perché fui costretto a restare a casa ma non mi andava di rimanere con le mani in mano. Così chiesi al Gloria e alla Garibaldina che erano officine milanesi di bici che se avevano bisogno di montare le ruote io glielo potevo fare “a domicilio”. Per farla breve: in qualche mese capii che guadagnavo di più così che non andando a lavorar da loro. E decisi di mettermi in proprio».
E così ha fatto fortuna?
«No, la fortuna un po’ bisogna andarsela a cercare. Però a volte ci sono incontri che ti possono cambiare la vita. E a me la cambiò quello con Fiorenzo Magni».
Il «leone delle Fiandre»?
«Sì, proprio lui. Me lo presentarono alla vigilia di un Giro. Per me era già un mito e quando mi chiese di andare a fare una pedalata insieme in Brianza non credevo alle sue parole. Partimmo in un gruppetto, poi ci fermammo a bere ad una fontana ma Magni si lamentava perché gli faceva male una gamba. Mi avvicinai e gli dissi “Signor Magni mi scusi, ma secondo me la gamba le fa male perché ha una pedivella fuori asse…”. La smontai, la rimontai e quasi per incanto quel dolore svanì…».
E che succede poi?
«Successe che due giorni dopo arrivò nel mio bugigattolo il suo massaggiatore e mi disse di far le valigie perché Magni mi voleva portare al Giro come suo meccanico. Era il 1955, Fiorenzo vinse il Giro e per me cambiarono parecchie cose…».
Colnago diventa Colnago…
«Si cresce sperimentando. Ci vuole coraggio, mi sono sempre piaciute le strade nuove. Così Magni per me è stato importante ma è stato importante anche Enzo Ferrari. Con l’ingegnere abbiamo creato la prima bici in carbonio. Non ci credeva nessuno, avevano tutti paura che i telai si potessero rompere. Noi siamo andati avanti e con le bici in carbonio e Franco Ballerini abbiamo anche vinto le Parigi-Roubaix. Che se un telaio non si spezza sul quel pavè…».
E ora i telai in carbonio li fanno tutti…
«Sì, adesso sì… Però è un po’ come il vino: perché l’è negher l’è minga tuc istess…>».
Si sperimenta…
«Noi italiani non abbiano nulla da imparare da nessuno in questo settore. Materiali, progetti, forcelle dritte, catene forate per rendere le bici più leggere, pochi ci possono insegnare come si fa. Anni fa mi avevano invitato in Cina per le Olimpiadi di Pechino e mentre passavo nella hall dell’albergo ho sentito due signori che parlavano in bergamasco. Erano di Ponte San Pietro e lavoravano per un’azienda italiana che stava insegnando agli ingegneri cinesi come si progettavano parti di componentistica per le bici. Noi in questo settore abbiamo conoscenze e tradizione e non abbiamo mai copiato niente da nessuno».
Però ora dettano legge gli asiatici.
«Hanno molti soldi da investire sia nelle produzioni sia nella sponsorizzazione agonistica: ci sono gruppi che hanno anche tre squadre Pro-Tour. Difficile fronteggiarli sui numeri. Bisogna continuare a tenere alta la nostra qualità. La sfida è quella lì».
Fare della bici un oggetto del desiderio?
«La bici non è un oggetto del desiderio. Come diceva Enzo Ferrari la bici è la macchina perfetta perché non inquina e fa bene alla salute… Bisogna continuare a fare le bici guardando avanti. Ed è strano che in una manifestazione sulla sostenibilità come l’Expo per la bici non ci sia spazio…».
E lei guardando avanti ha fatto bici per tutti: da Papa Wojtyla a Gorbaciov a Re Juan Carlos.
«La vita è fatta di occasioni. Quello con Giovanni Paolo II è stato un incontro che mi ha segnato. Gli avevo portato una bici da corsa perché sapevo che da giovane a Cracovia era stato un ottimo ciclista ma poi la cambiammo perché lui, quasi imbarazzato, mi disse che da pontefice faceva un po’ fatica a girare per Roma in bici da corsa. Allora in un paio di giorni gli portammo un modello da turismo laccato beige che usò a Castelgandolfo».
E con il Re di Spagna?
«Beh, lì rischiai l’arresto. Perché quando mi fermarono alla frontiera e spiegai che stavo andando a portare la bici al Re mi presero per pazzo. Mi tennero lì fermo un paio di ore poi, dopo un paio di telefonate, mi vennero a prendere in elicottero e Juan Carlos mi ospitò due giorni da lui…».
Bici per grandi personalità ma anche per i campioni. Magni, Nencini, Motta, Saronni, Bugno, Freire, Museeuw, Rominger, Tonkov, Zabel e Petacchi. Il record dell’ora di Merckx nel 1972 a Città del Messico, 8mila vittorie. Chi le è rimasto nel cuore?
«Non voglio fare torto a nessuno, tutti grandissimi. Ma per Beppe Saronni ho avuto un debole. Fortissimo dappertutto: in pianura, in volata, in salita. Ma soprattutto una testa fantastica e lo dimostra ancora oggi. Però, anche se non ha mai corso con le mie bici, ho sempre avuto una stima immensa per Felice Gimondi…».
E oggi?
«Oggi c’è Vincenzo Nibali. Corridore fortissimo e intelligentissimo…».
E il doping?
«Guardi il ciclismo è lo sport che per combattere il doping fa più di tutti. Controlli, passaporti biologici, esami a sorpresa. Oggi chi si dopa è fuori di testa…».
Perché?
«Perché tanto lo beccano…»