Lo sport secondo Dino…
«Ho fatto un ambaradan per mettere un canestro nella nostra casa di campagna…Poi avrò tirato due o tre volte, ci giocano i miei nipoti». Dino Meneghin è Dino Meneghin. Storia di uno sport che in Italia ha la sua faccia, i suoi canestri e le sue vittorie consacrate sulla strada che da Varese porta a Milano. C’è tutto il mito scritto su quei sessanta chilometri: dodici scudetti, sette coppe dei campioni, tre intercontinentali, un oro e un bronzo europeo e un argento olimpico. Quanto basta (e avanza) per farlo diventare un’icona. «No col basket giocato ho chiuso- racconta- Abbiamo provato a fare qualche rimpatriata in campo ma mi viene tristezza. La pallacanestro non è il calcio dove uno anche con qualche anno e qualche chilo in più va in campo e ci prova. E’ uno sport che esalta velocità e potenza così quando vedi il campione della tua gioventù che torna in campo con la pancetta, tira e non prende neanche il ferro… Beh è meglio lasciar perdere. Ora lo sport lo faccio a tavola…». Ma la sua storia non la cancella più nessuno. E a ricordarne un pezzo ci ha pensato la sera scorsa il Circolo dei Navigli di Milano che quest’anno ha deciso di assegnare il premio Candido Cannavò proprio all’ex pivot di Varese e Milano. Un premio alla carriera che diventa l’occasione per fare il punto sul basket azzurro. «Il movimento c’è e cresce- spiega Meneghin che per dieci anni è stato anche team manager azzurro- Ci sono tanti ragazzi che giocano nelle giovanili, qualcuno diventa un gran giocatore, altri giocatori normali, altri ancora smettono ma dopo aver calpestato i parquet continuano a riempire i palasport e credo diventino tifosi un migliori». Così dopo aver ritirato l’opera di Guido Bertuzzi, che è il premio che riassume una vita di sport, Meneghin scherza sul suo destino di campione: «In realtà io non volevo giocare a pallacanestro- ride- ma volevo fare il fantino. Solo che non c’erano cavalli disponibili a farsi cavalcare e i brontosauri erano estinti da qualche anno. Scherzi a parte la mia carriera la paragono a un treno che è passato ed ha attraversato tutta la mia vita e dove con lo sport sono salite persone importanti che hanno contribuito a vittorie importanti. A me non è successo ciò che è capitato a Yuri Chechi o a Sara Simeoni. Per vincere sono stato sempre abituato a contare sulla squadra, da noi si impara subito che anche i campioni se non si mettono a disposizione la differenza non la fanno». Il basket azzurro cresce ma la differenza con gli Stati Uniti c’è sempre, un Oceano in mezzo e non è solo un distanza geografica: «Innanzitutto c’è un differenza di strutture e quindi di eventi- spiega Meneghin- Da noi con l’eccezione di Torino dove c’è un palasport capace di ospitare 14mila spettatori non ci sono impianti di livello e anche l’Olimpia che ha appena vinto il titolo anche il prossimo anno non potrà usare il Palalido. E poi è la mentalità che è differente. I ragazzi americani nei college studiano e giocano e prima di trovare contratti con le squadre di tempo ne passa. Molti dei nostri invece ragazzi a 17 18 anni già hanno contratti con le prime squadre. Non che diventino ricchi, ma basta a farli sentire arrivati». Ma al basket italiano per fare il salto di qualità manca una grande impresa. E un grande risultato potrebbe anche essere a portata di mano nei prossimi giochi olimpici dove la qualificazione manca ormai dal 2004. Però a Rio bisogna andarci cercando di strappare con i denti un biglietto nel torneo preolimpico che si giocherà dal 4 al 9 luglio a Torino: «L’italia c’è e se la gioca, ma non sarà facile- spiega Meneghin– Bisognerà guardarsi dalla Tunisia e dal Messico che sono nazionali toste ed emergenti ed ovviamente da Croazia e Grecia nostre avversarie di sempre».