Maratona di Rio, Pertile c’è…
«Non so bene se oggi abbiano pesato di più i miei 42 anni o i 42 chilometri corsi. Ma la maratona bisogna correrla con il cuore e con la passione. Bisogna essere maratoneti per arrivare in fondo a un gara così…”. Vero, tutto vero. Anche quando arrivi lontano dai primi, anche quando arranchi nelle retrovie di una gara olimpica, anche quando non non sei là davanti. Anche quando chiudi trentottesimo a parecchi minuti dal primo. Ma ci sono tanti modi per essere protagonisti in una maratona. E basta incrociare lo sguardo di Ruggero Pertile all’arrivo del Sambodromo di Rio per rendere onore ad un combattente che fa i conti con l’onestà dei semplici. Pertile c’è. C’è sempre stato in questi anni. Al di là dei pronostici, al di là dei proclami e al di là di tutto. Certo, non corre per vincere, però sa cosa significa indossare una maglia azzurra e lo fa come va fatto. Ed è un esempio e una consolazione per un’atletica che in questa spedizione brasiliana resta a bocca asciutta come non accadeva da sessant’anni. Ruggero Pertile non può fare miracoli, non era venuto a Rio per quello, non lui almeno. Però corre, fatica, lotta, non molla mai e alla fine arriva. Non si arrende. Sa che non può reggere il passo. Non può più. Capisce che là davanti quando accelerano è meglio lasciarli andare. Capisce che 42 anni e una carriere fatta di chilometri, di 28 maratone, di rinunce, di salti mortali per conciliare gli allenamenti con una vita normale, cominciano ad essere un peso. E allora si spiega quella vena malinconica al traguardo: “Ormai sono vecchio- racconta ai microfoni della Rai- Provo a dare consigli se qualcuno mi vuol sentire…”. Prova ad affiancare Daniele Meucci al decimo chilometro e prova a dirgli di agganciarsi al gruppetto dei primi. Lui può. Lui potrebbe ma dopo un paio di chilometri mette la freccia e si ferma. Addio sogni azzurri, quei pochi, pochissimi che si potevano fare. E allora tocca a lui ricominciare. Tocca a lui farsi carico del peso di una maglia che bisogna portare al traguardo con orgoglio, perchè nella storia ci sono due ori olimpici da onorare, che forse non torneranno più, però restano. E Pertile va. Col suo ritmo, con i suoi tempi, come un “metronomo”, con quel suo passo regolare che lo ha portato a vincere, lo ha portato a sfiorare un podio mondiale, lo ha portato qui a Rio ma anche a Londra e prima ancora a Pechino. Pertile va e arriva. Prima di lui in tanti. Prima di lui i soliti africani, il keniano Eliud Kipchoge che vince l’oro in 2’08″44 e l’etiope etiope Feyisa Lilesa che sull’inifinto rettilineo finale si gira e si rigira per assicurarsi che statunitense Galen Rupp non gli porti via l’argento. Ma Pertile c’è. C’è sempre. E tra quattro anni a Tokyo quando non ci sarà più un po’ ci mancherà…