Il triathlon? Cose da turchi…
Ci sono i capitani coraggiosi e poi ci sono gli allenatori coraggiosi. Anche nel triathlon. Perchè viene facile salire su un aereo che ti porta a Kona, in America o in Australia dove nuotare, pedalare e correre è quasi sport nazionale. Dove tutto è cominciato, dove ci sono storia, presente e futuro. Facile magari no, però più semplice. Perchè da quelle parti la strada è segnata, il solco c’è e basta seguire o mettersi in scia come fa chi non ama rischiare. Ma sempre la sfida più affascinate è proprio quella che sembra impossibile. Dove contano la tua caparbietà, il tuo sogno la tua testa. O forse l’incoscienza. Che è poi quella che ti fa salire la scaletta di un Boeing destinazione Izmir, che molti non sanno neppure dove sia, che sta al triathlon come il bob alla nazionale giamaicana come in uno spot di tanti anni fa. Lì si partiva da zero. Zero assoluto, tutto da fare, costruire, spiegare in un sogno olimpico forse impossibile anche da “sognare“. Andrea Gabba, 44 anni, torinese, tecnico azzurro ad Atene come coach di Nadia Cortassa e poi a Pechino come responsabile della squadra femminile, quattro anni fa tutti questi dubbi se li è portati appresso quando è decollato da Malpensa per volare in Turchia. Responsabile dell’attività e del progetto olimpico della nazionale, un doppio salto mortale, una scommessa con parecchio da perdere in un Paese che, non solo non aveva una storia di triathlon, ma non ne aveva una neppure nel nuoto, nella corsa o nel ciclismo. “Sì è così e lo sapevo- racconta- però con tutte le difficoltà, le contraddizioni e le amarezze per non aver raggiunto una qualificazione olimpica che alla fine sembrava ala portata è sia stata un’esperienza unica. Ho conosciuto persone che hanno segnato per sempre la mia vita e a cui dirò sempre grazie per avermi messo un foglio davanti che mai mi pentirò di aver firmato…“. Quattro anni per costruire una squadra che non c’era. Per provare a qualificarsi ai Giochi senza cercare giustificazioni perchè i mezzi erano quelli che erano, le strutture anche e i fondi a disposizione andavano spesso “integrati“ di tasca propria. Niente alibi: «Nella loro tradizione il triathlon non esiste- racconta l’ex coach azzurro- L’unica gara che hanno è ad Alania, ma è una gara turistica, quando ci siamo trovati ad organizzarne una per gli elitè ho dovuto rifare le misurazioni del percorso, perchè non esisteva un percorso e perchè i tempi erano troppo veloci e i conti non mi tornavano…“. Però nelle cose bisogna crederci. E si fa con ciò che si ha. Pochi stage, pochi camp,niente staff e tecnici. Poco di tutto. “Ho sempre lavorato da solo- racconta Gabba– Le trasferte quando ogni minimo dettaglio può determinare il risultato finale, sono state spesso fonte di tensione ma ci hanno aiutato a diventare una squadra, a crescere come gruppo. Voli prenotati all’ultimo, transfert assenti con viaggi verso l’hotel in bus o in metro, hotel cercati all’arrivo in aeroporto. Notti in cui il letto era così piccolo che ho ceduto la mia parte di materasso all’atleta con cui dividevo la stanza. Ogni gara era davvero un’avventura che ci ha reso più forti. Ma ho avuto la fortuna di vivere questa esperienza con atleti capaci di non piangersi mai addosso. Spesso ci siamo chiesti “ E adesso cosa facciamo?” E la risposta era sempre la stessa: “Adesso andiamo avanti…“. Un gruppo. Tirato da triatleti che per inseguire un sogno olimpico hanno preso il passaporto turco come la nostra Gaia Peron, come il tedesco Jonas Schomburg, come il francese Aurelien Lescure. “E c’eravamo quasi- ricorda il ct turco- Con Aurelien in Messico, alla vigilia della gara che avrebbe potuto darci la qualifica olimpica è stato il momento più duro della mia esperienza turca. Era rientrato da un infortunio, aveva vinto in Equador e aveva ottime chanche per far bene anche lì. Però la mattina prima della gara mi ha preso da parte e mi ha detto: “Non parto…“. Aveva una frattura da stress a un piede. Mi è caduto il mondo addosso…“. Ma forse alla fine l’Olimpiade sfiorata in tutta questa storia rimane un dettaglio. Resta un lavoro enorme fatto in quattro anni. Un impegno costante di allenamenti, test, riunioni, visite alle squadre con strutture neppure accennate, fatto di contraddizioni dove non ci sono fondi per un settore giovanile ma dove c’è un movimento age-group capace di spendere decine di migliaia di euro per una bici o per un viaggio: «La Turchia è un Paese che aspetta- spiega Gabba- Sono sempre in attesa che gli porti qualcosa. Quando ero ct azzurro e andavo a far visita ad una società i tecnici mi dicevano: “perfetto, cosa dobbiamo fare per portare i nostri ragazzi in nazionale? Spiegaci…In Turchia vai a trovare un squadra e dal ct si aspettano che sia tu a portare qualcosa…“. Quattro anni punto e a capo. Forse, ma non è detto. Anche se ricominciare non è semplice: “Due mesi fa ero certo che sarei rimasto ad allenare in Turchia- racconta Gabba– Ma da quelle parti cambia tutto molto velocemente ed anche le scelte politiche federali. Così ora c’è qualche dubbio in più. Vedremo“. Resta ciò che è stato fatto. Restano un’avventura personale indimenticabile, le persone, gli incontri, i sacrifici le gioie le delusioni e anche qualche numero. Resta che in 4 anni i giovanissimi che in Turchia si sono avvicinati al triathlon sono cresciuti del 300 per cento. Resta un’avventura olimpica sfiorata di un soffio, una squadra irripetibile e i ragazzi che sono diventati una cosa sola. Già i ragazzi…“Sì alla fine loro hanno fatto la differenza- ammette Gabba- Anzi le dirò di più…Se qualcuno mi dovesse chiedere perchè ho fatto tutto questo non risponderei perchè ho avuto coraggio. L’ho fatto per loro. L’ho fatto per i ragazzi…“.