Nanga, la tragedia e il miracolo
L a gioia e lo strazio. La gioia di aver salvato una vita, lo strazio di avere lasciato sugli 8mila metri del Nanga Parbat in Pakistan, un alpinista, un amico, un marito e un padre che non tornerà. Impossibile che se la cavi da solo, impossibile andare a prenderlo. Per gli elicotteri dei militari dell’esercito pakistano che fin lassù non sono riusciti ad arrivare perchè in inverno il tempo non permette neppure di avvicinarsi, per il gruppo di soccorso che con il cuore sarebbe andato avanti ma che la testa ha obbligato a tornare indietro per non aggiungere tragedia a tragedia.
E’ finita così. Non ci sarà alcun tentativo di soccorso per il polacco di 46 anni Tomek Mackiewicz. E’ rimasto tra i ghiacci a 7200 metri, all’ultimo campo base, dove era riuscito a portarlo la compagna di cordata Elisabeth Revol, 37 anni francese, in una discesa disperata dalla vetta dopo che per i due si era messa male. Malissimo. Per Mackiewicz quasi cieco dopo aver perso in un incidente gli occhiali che lo proteggevano dai riflessi della luce e con un principio di congelamento, per Elisabet semicongelata pure lei ma con la forza di tornare indietro, di lasciare in una tenda il suo compagno di cordata per provare a scendere ancora a chiedere aiuto.
Giorni passati all’addiaccio, di contatti, di sos, di messaggi che hanno permesso al gruppo di soccorso coordinato dalla moglie di Mackiewicz di mantenere accesa la speranza con una delle più incredibili operazioni di soccorso della storia dell’alpinismo. Denis Urubko, Adam Bielecki, Piotr Tomala e Jaroslaw Botor sono i quattro scalatori polacchi che si sono offerti volontariamente per andare fin lassù. Erano impegnati nella salita invernale del K2, che si trova più a Nord, e non ci hanno pensato due volte a salire su due elicotteri che li hanno portati ai piedi del Nanga Parbat. E sono partiti. Sfidando temperature di 40 gradi sotto zero, sfidando il buio, una via non attrezzata dove hanno dovuto piantare ganci e corde, sfidando pericolose pareti ghiacciate dove sono saliti a tempo di record rischiando ovviamente a loro volta la vita. Una trentina di ore per arrivare ad incontrare Elisabeth Revol, per darle qualcosa da bere e da mangiare, qualche medicinale e caricarla su un elicottero che l’ha portata in un ospedale di Islamabad. Trenta ore per scalare un gigante che ha fatto tante vittime, che tutti chiamano «la montagna della morte» e che si è tenuta per sempre il loro amico Tomek.
Mackiewicz, che lascia la moglie e tre figli, iniziò ad arrampicare in India e nel 2008 conquistò il monte Logan, la montagna più alta del Canada e la seconda cima più elevata del Nord America. L’anno dopo era riuscito a salire da solo sul Khan Tengri, la montagna più alta del Kazakistan. Ma il Nanga Parbat era la sua sfida, il suo cruccio, l’ossessione di una vita. Aveva cercato di salire in vetta per sei volte ed era stato sempre stato respinto. Ora l’ha conquistato per sempre. «Ho un sogno adesso – scrive sul suo profilo Facebook Daniele Nardi, uno degli alpinisti italiani che hanno lavorato nel gruppo di soccorso – che si abbia il ricordo di Tomek come uno dei più grandi alpinisti ma esistiti.
Ha salito in stile alpino, con le proprie forze una via indicata da Heisendle e Messner e completata da Tomek ed Elisabeth. Mi piace pensare che quella linea me lo ricorderà per la simpatia, per la forza e la semplicità che trasmetteva dopo un minuto che ci parlavi. Il sogno di Tomek è anche per i suoi figli che cresceranno con l’ idea di aver avuto un padre che ha saputo realizzarlo…».