La cultura del Giro: ecco cosa resta
Quale sarà l’eredita di questo bel Giro D’Italia? Cosa resterà? Le imprese di Carapaz e Nibali, il freddo, i racconti affascinanti di Fabio Genovesi, le campagne per la sicurezza? Sarebbe bello restasse un po’ di tutto. Un bel “frullato” di ciclismo che non è solo un scatto in salita, una fuga, una vittoria. Il ciclismo è cultura ed è ciò che serve se tra qualche lustro si vorrà, come deve essere, cominciare a pensare alla bici come uno stile di vita e di mobilità integrato ed accettato . Come fa cultura in bici sinceramente non lo so… Però è un punto importante per cominciare. Per esorcizzare la paura di incidenti, i morti e i feriti, le angosce che poi ognuno si porta in sella. Far cultura in bici significa rendersi conto che chi pedala rischia la pelle e quindi sulle strade tutti, ma proprio tutti, si mettano una mano sulla coscienza. Chi va a motore rispetti le regole, chi pedala pure e chi deve far rispettare il codice punisca e multi chi non lo rispetti. Ognuno faccia la sua parte. Anche perchè incroci, semafori, precedenze, discese non fanno sconti a nessuno e basta una volta per pagare il conto finale. Fare cultura in bici significa andare oltre l’assurdo dibattito auto contro bici e bici contro auto, categorie spesso interscambiabili che portano a ragionare con la pancia, a recriminare a insultare.. Sempre la stessa litania, sempre le stesse cose, sempre il solito inconcludente confronto. Far cultura significa non delegare. Le associazioni dei ciclisti, le società sportive, i giornalisti, i privati cittadini si facciano carico di sostenere la ciclabilità nei consigli comunali, nei dibattiti pubblici, negli incontri, anche nelle riunioni di condominio…Si cominci a pretendere che amministrazioni, sindaci, governatori si occupino di mettere a posto strade, segnaletica, incroci. E non è detto che ci si debba battere solo per per le piste ciclabili. Far cultura significa che le Federazioni, gli allenatori che portano i ragazzi ad allenarsi in strada spieghino prima di cominciare cosa si deve fare, come si deve pedalare quando di fianco ti sfrecciano le auto. Regole chiare. Per intenderci: va benissimo Peter Sagan che impenna o salta con due ruote un cordolo…Ma non è quello il modello. Significa, ad esempio, che le Granfondo devono diventare una festa per appassionati prima che una sfida per “incistati”, per ex agonisti bolliti per cinquantenni che rischiano di diventar patetici. Tutti pronti a tutto, anche a doparsi. Fa differenza. Eccome se fa differenza perchè laddove c’è l’esasperazione agonistica ci sono tutta una serie di azioni e pensieri esasperati. Perchè inventarsi un’altra dimensione di ciclismo, avere il coraggio di togliere le classifiche o i renderle parziali solo su alcuni tratti, di di squalificare il primo perchè butta in terra la carta di una barretta sono passi che vanno in quella direzione lì. Mi piace pensare che sfide così possano diventare il modo per stemperare le tensioni, per calmare gli animi, per innamorarsi e non per guerreggiare. Fare cultura significa tener viva la memoria di un mondo incredibile come il ciclismo che ha storia, tradizione e valori che hanno radici profonde in questo Paese. Un patrimonio enorme fatto di campioni, di personaggi, di salite, strade, tappe. Significa spiegare nelle scuole un po’ di queste cose qui. Significa parlare, discutere, studiare. Significa entrare in un bike cafè che a Milano stanno nascendo come i funghi, e avvicinarsi a un mondo che si può condividere ma non solo sui social. Fare cultura significa sporcarsi le mani con il grasso della catena. Che non serve a niente. Forse solo a riconoscersi e a farsi riconoscere strappando un sorriso e non un insulto…