Addio Felice
Addio Felice. Eroe popolare, uno degli ultimi. Che se ne vanno e lasciano un vuoto anche a chi non è di famiglia. Restano per sempre: nelle foto, nei racconti nelle immagini che scorrono ormai da un paio di giorni sulle tv, in un’intervista ( riportata qui sotto) che raccontava i suoi settant’anni. Felice a braccia alzate, Felice battuto da Eddie e Felice che lo batte. Felice che vince il Tour, il Giro, il mondiale a Barcellona. Tutto scritto, tutt0 fissato per sempre nella memoria di chi vive il ciclismo sottopelle. E Gimondi è una storia infinita che ti entra dentro, dritta al cuore. E’ uno per bene, un signore, uno di famiglia che vive nelle storie e nei racconti che si tramandano dai nonni ai papà fino ad arrivare alle orecchie di figli che non lo hanno conosciuto ma poco importa. Felice è il racconto popolare di uno sport che una volta metteva intorno ad un tavolo le famiglie, che le portava ai bordi delle strade, che faceva discutere, univa e divideva. Felice è un mondo che non c’è più, più povero ma più ricco, più romantico, più ingenuo ma forse più genuino. Un mondo elegante, pacato, fiero, fatto di strette di mano e di parole date e mantenute. Un mondo che oggi corre via veloce come una biglia su una pista di sabbia…
“Voglio spendere due parole su Lance Armstrong. Per dire che non si cancellano sette Tour de France dopo dieci anni. Non si tolgono a nessuno, anche se quel corridore è Armstrong,uno antipatico a tanti. E’ un furto. Non si può fare l’antidoping al rallentatore. E’ sbagliato. Poi non è l’Unione ciclistica che gli ha tolto le vittorie. Dietro c’è una battaglia politica… E questi Tour sono stati 0mologati. Quindi il discorso è chiuso. Altrimenti bisogna riscrivere all’infinito la storia del ciclismo….”. Non è molto cambiato Felice Gimondi, nonostante abbia raggiunto quota 70. Che non è un traguardo di un Gran Premio della montagna, ma un traguardo comunque impegnativo perchè, durante la salita, devi portarti dietro la famosa valigia dei ricordi. Ricordi belli, intendiamoci. Ma fare i bilanci, anche se ti chiami Felice Gimondi, è sempre un arma a doppio taglio. Tanti auguri da Radio 24, tanti complimenti, sei ancora una roccia. Però, tra una candelina e l’altra, ti accorgi che la valigia è ormai piena, e che le cose più importanti le ha già fatte. “Quando mi dicono di andare in pensione, dico domani o dopodomani. E poi riprendo a lavorare. Ho paura a fermarmi. E di come impiegare il tempo. Va bene l’orto, la passeggiata col cane, la famiglia, leggere il giornale come Dio comanda. Ma io non sono mai stato fermo in vita mia. E facendo così mi sono sempre trovato bene…” Ma con Felice Gimondi, 143 vittorie in carriera (tra le quali un Tour de France, una Vuelta e 3 Giri d’Italia), non si può parlare solo di una corsa o del tempo che fa domani. Ogni parola ne richiama un’altra, ogni nome ti evoca una pagina della storia del ciclismo. “Era più bello il mio ciclismo per tanti motivi. Il primo che c’erano tanti personaggi. Faccio dei nomi: Adorni, Motta, Bitossi, Taccone, Dancelli, Basso, Zilioli. E poi Anquetil, Ocana, Maertens. Merckx….” . Ecco, Merckx, togliamoci il dente… incalza Dario Ceccarelli di Radio 24. “Ma non il dolore. – risponde il ciclista – Perchè Eddy mi ha fatto morire. Quello era tremendo, uno che non mollava mai. Una bestia, un cannibale, sul serio. Non ‘c’era verso di vederlo deconcentrato. Anche alla corsa del paese. Voleva sempre vincere. Un mostro. Però che campione…….non l’ho mai odiato. Certo mi faceva incavolare. Senza di lui avrei vinto molto di più… Però mi ha obbligato a fare i conti con me stesso. Dopo la vittoria al Tour de France, nel 1965, credevo di essere un numero uno. Ma poi, quando è arrivato lui, ho capito che avrei dovuto rivedere completamente i miei progetti. Lui era troppo forte. Potevo metterlo in difficoltà, approfittare di una sua debolezza, ma sempre tenendo conto che lui era di un altro pianeta. Così’ facendo mi sono tolto le mie soddisfazioni…”. Per esempio? “Beh, il mondiale di Barcellona, è stato un bel colpaccio. Mi è andata bene, però che soddisfazione! Bisogna capire anche una cosa: vincere con Eddy, ti dava doppio gusto. Alla fine un successo acquistava più valore. Mi ha costretto a crescere, a irrobustire il carattere. Ero diventato cattivo,,, Anche coi miei compagni spesso ero troppo severo, esigente. Poi mi sono scusato e ho ringraziato tutti, perchè tutti hanno lavorato con impegno…”. Molti altri tuoi avversari ex contadini, muratori, gente che veniva dalla gavetta. Aver fame vi ha aiutato a favi largo? Domanda il conduttore di Radio 24 “Credo proprio di sì. Io per avere la prima bicicletta ho dovuto pregare mio padre per anni e anni. Quando l’ho avuta, mi sembrava di guidare una Ferrari. Siamo cresciuti con la voglia di emergere, di lasciare una vita non facile. Intendiamoci: il ciclismo non è una passeggiata, anzi. Non vedi i figli, la moglie… Sono sacrifici pesanti. Bisogna essere corazzati, noi lo eravamo…” E adesso? “E’ un altro mondo, più specializzato. Difficile fare paragoni. Certo loro non corrono da febbraio a novembre come facevamo noi. Oggi c’è più concorrenza perché sono entrati paesi nuovi: l’Australia, Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna che fa molto sul serio. Il nostro ciclismo era più spettacolare perché giocavamo allo scoperto e riuscivamo a coinvolgere emotivamente i nostri tifosi. Poi c’era meno tatticismo. Noi si provava: o la va o la spacca. Si partiva da lontano per sorprendere l’avversario. Ora è più difficile. Comunque anche questi ragazzi fanno dei bei sacrifici…” Marco Pantani: hai dei rimpianti…? “Più che rimpianti, mi rimane il dolore. Non si muore a 33 anni. Lui non era un ragazzo facile. Ho provato a seguirlo, a stargli vicino. Ma Marco voleva i suoi spazi, non dava molto ascolto. Lo chiamavo, ma spesso non mi rispondeva. Si assentava, perdeva il contatto. Mi rimane una profonda tristezza, per non aver potuto fare di più…”