Omar, il ciclista di ghiaccio
C’è un uomo solo al comando, come capita spesso nel ciclismo. C’è un uomo solo al comando in Mongolia nella gelida terra dei ghiacci e questo capita un po’ meno. Un po’ per sfida, un po’ per lavoro ma molto per passione, che è poi il fluido magico che dà vita ad ogni cosa. Moltissimo perché così probabilmente gli dicono la testa e il cuore. «Il mio ciclismo più che prestazione è avventura» racconta sempre Omar di Felice, 39enne ultracycler romano con un passato da grafico pubblicitario alle spalle. «Un modo di essere che mi permette di scoprire luoghi incredibili ma anche me stesso. Mi permette di capire quali sono le mie possibilità e quali i miei limiti…». E allora un anno da corridore professionista basta e avanza, perché quello è un «mestiere» che a un filosofo delle due ruote va stretto: «Da adolescente i miei allenatori mi portavano in circuito ad allenarmi- ricorda- ma io innamorato di Pantani sognavo le salite, sognavo il Pordoi e obbligavo i miei genitori a portarmi in vacanza lassù…».
Così la strada diventa un’altra, diventa quella che lo porta a viaggiare da solo per chilometri, giorni e notti dal Gran Sasso allo Stelvio, da Capo Nord all’Alaska, in Islanda, nelle regioni artiche dello Yukon in Canada fino ad attraversare da costa a costa l’America lungo i 7mila chilometri della Transamerica. «La prima volta che mi ritrovai a passare da solo una notte in bici ero sui Pirenei- spiega – Fu uno shock, appoggiai la bici ad un’auto posteggiata e chiesi di riportarmi a casa…». Poi però tutto è cambiato e ci ha preso gusto a pedalare da solo verso l’infinito.
Tra qualche settimana si prepara a partire per la Mongolia, dove attraverserà il deserto dei Gobi, un territorio che d’inverno diventa veramente estremo con temperature che vanno dai -20 ai -40 gradi. Da solo, senza una squadra di supporto come era sempre stato finoora. Da solo con una bici da «gravel» attrezzata con borse per contenere un tenda di sicurezza, un sacco a pelo, un fornelletto e il cibo che servirà. Partendo da Ulan Bator, la città più fredda al mondo, pedalerà verso Sud raggiungendo l’ingresso orientale del deserto mongolo e tentando poi di attraversarlo in senso orizzontale: da Est a Ovest raggiungendo Altay, circa 2mila chilometri da percorrere senza una rotta stabilita.
Solo al comando per una sfida che è una via di mezzo tra ciclismo e avventura. Che è anche un bel rischio: «Sarei un bugiardo se non dicessi ho un po’ di paura – ammette – Vado in una terra ignota, che solo Reinold Messner ha attraversato ma in primavera. In inverno è tutto più complicato e mi chiedo spesso se non starò chiedendo troppo a me stesso. Ma credo che questa sia la mia valvola di sicurezza perché metto in conto di poter fallire, di tornare indietro, di girare la bici e arrendermi magari per riprovarci ancora…». L’idea di attraversare questo pezzo dimenticato di mondo gli è venuta qualche anno fa quando l’aveva sorvolato in aereo mentre andava in Giappone. «Fu una folgorazione – racconta – pensai subito che un giorno nella mia vita lì ci sarei passato, che avrei attraversato quell’immensa distesa ghiacciata o almeno ci avrei provato…». E l’ora è arrivata.
Si è allenato per quanto ci si possa allenare a un’impresa così. Ha pedalato al freddo, ha scalato montagne dove stava nevicando, ha dormito all’aperto, ha abituato il suo corpo al digiuno, a consumare il meno possibile. Pedalerà cinquanta, cento, forse duecento chilometri al giorno seguito con un gps da una guida del luogo che gli indicherà tragitto e punti di appoggio: «Che non ci sono – spiega – Gli unici aiuti su cui potrò contare sono quelli che mi offriranno le tribù nomadi che vivono da quelle parti, che si spostano secondo le condizioni del meteo e che per tradizione ospitano e rifocillano chi viaggia sulle loro rotte». Il resto è un’incognita.
È esplorazione pura fatta in sella ad una bici che traccerà strade dove nessuno è mai passato. Alla ricerca di una impresa estrema che ti porta a fare i conti con te stesso e che è diventata una necessità. Inutile chiedere il perché. E così. È così è basta apparentemente contro logica e buonsenso. Ma non comanda la ragione. «C’è un richiamo che arriva da lontano e che molti sentono forse perché siamo bombardati dalla tecnologia – spiega Omar – perché abbiamo tutto, spesso anche il superfluo… Invece quando sei solo e ti ritrovi a fare i conti con freddo e fatica capisci veramente di cosa puoi avere bisogno. Mangi davvero sei hai fame e bevi davvero se hai sete».
Poi si tirano le somme e si riparte. Perché è chiaro che non finirà tutto in quel deserto della Mongolia. Quella è solo un’altra tappa del viaggio: «Pedalare in silenzio al buio e nel ghiaccio sono le tre parole che riassumono perfettamente ciò che faccio – spiega – Pedalare in silenzio, al buio e nel ghiaccio è il mio ciclismo che mi porta ad avvicinare il limite e a pensare ogni volta di averlo raggiunto. Ma dura poco perché poi mi fermo, mi lascio affascinare da un’altra suggestione e se Sara, la mia compagna e Fabio, il mio allenatore ma in realtà molto di più, danno la benedizione sono già pronto per ripartire. In realtà credo non si possa ma dire di aver raggiunto il limite, mai si può dire di essere arrivati…». C’è un uomo solo al comando. Ma la sua è tutta un’altra storia.