Buzzati e il Giro d’Italia, capolavoro senza tempo
Cinquant’anni fa moriva Dino Buzzati scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo, librettista, scenografo, costumista e poeta italiano. Nel 1949 fu incaricato di seguire il Giro d’Italia. Non raccontò solo una corsa. Raccontò la festa di popolo di una nazione appena uscita dalla guerra e un momento di orgoglio nazionale. Venticinque cronache con il titolo “Dino Buzzati al Giro d’Italia” che restano un capolavoro senza tempo. Un capolavoro come questo piccolo estratto che racconta la sfida tra Bartali e Coppi.
Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille. È troppo solenne e glorioso il paragone? Ma a che cosa servirebbero i cosiddetti studi classici se i loro frammenti a noi rimasti non entrassero a far parte della nostra piccola vita? Fausto Coppi certo non ha la gelida crudeltà di Achille: anzi, tra i due campioni, è certo il più cordiale e amabile. Ma in Bartali anche se scostante e orso, anche se inconsapevole, c’è il dramma come in Ettore, dell’uomo vinto dagli dei. Contro Minerva stessa si trova a combattere l’eroe troiano, ed era fatale che soccombesse. Contro una potenza sovrumana ha lottato Bartali e doveva perdere per forza la potenza malefica degli anni. Intatto è il cuore formidabile, perfettamente in ordine l’apparato muscolare, lo spirito è saldo come nei tempi della fortuna. Ma il tempo ha lavorato dentro di lui, inavvertito, ha toccato appena appena i meravigliosi visceri, una cosa da niente, né medici, né strumenti registrano alcunché di mutato. Eppure l’uomo non è più lo stesso. E oggi per la seconda volta ha perso.
Questa tappa divoratrice di uomini – mai vista una corsa ciclistica così tremenda, dicevano stasera i tecnici più sperimentati – cominciò in una tetra valle, con pioggia, nuvoloni, nebbia bassa, disagio, depressione. Accartocciati nelle loro giacche impermeabili, i corridori quasi per ripararsi dal tempo nemico, si tenevano stretti uno all’altro, trascinandosi su per la Valle Stura come svogliati lumaconi. Misteriosamente era giunto l’autunno, la strada era deserta, forse non avremmo incontrato più né paesi né creature umane, la carovana si sarebbe trovata a tarda sera senza più forze, in un deserto di rupi e ghiacci e non avrebbe più sentito la diletta voce dei suoi cari. Tale lo stato d’animo. Solo di quando in quando i tendaggi di nebbia si aprivano, lasciando intravvedere remote cime nerastre. Ma bianche luci, filtrando di sotto ai nuvoloni, ci ricordavano che in qualche parte della terra forse splendeva anche il sole.
La malinconica schiera dei così maltrattati lumaconi sbucò finalmente al buio della pioggia sopra Argentera. Si era già in alto e la valle respirava. Noi si corse avanti e dagli spalti del Colle della Maddalena guardammo in giù, la strada viscida che si perdeva a zig-zag nel fondo valle. Il sole! E per un caso fortunato assistemmo alla scena decisiva, al fatto d’arme più importante della guerra, a ciò che ha risolto i dubbi, le discussioni, le polemiche, per cui l’intero Paese palpitava. Da quella piccolissima scena, sperduta nella maestosità della montagna, doveva dipendere tutto il resto, il trionfo di un giovane uomo e il tramonto irreparabile di un altro uomo non più giovane. Centinaia di migliaia di Italiani avrebbero pagato chissà quanto per essere lassù dove noi si era, per vedere quello che noi vedevamo. Per anni e anni – ce ne rendemmo conto – si sarebbe parlato a non finire di questo fatterello che non pareva di per sé niente di speciale, solamente un uomo in bicicletta che si allontanava dai suoi compagni di cammino. Eppure sul fianco della strada, irresistibile, passava in quell’istante, e non ridete, ciò che gli antichi usavano chiamare fato (… l’auree bilance sollevò nel cielo – il gran Padre, e due sorti entro vi pose – di mortal sono eterno; una d’Achille – l’altra d’Ettore: le librò nel mezzo – e il duce troiano il fatal giorno – cadde e ver l’Orco dechinò).
Erano così a picco sotto di noi i corridori che nella prospettiva verticale parevano dei sottili insetti colorati che scivolassero adagio adagio. Questa schiera ebbe a una tratto leggeri fremiti qua e là. Finalmente si svegliavano? All’improvviso uno di essi, minuscola macchietta arancione, si staccò dagli altri e più veloce guadagnò un pezzo di strada (era Primo Volpi, e subito si capì dai suoi colori che non era uno dei giganti). Però un’altra di quelle sagomette colorate di bianco e blu sgusciò immediatamente di fianco al gruppo, arcuando il dorso, schizzò avanti e in pochi istanti ebbe raggiunto la maglia arancione. Almeno cinquecento metri in linea d’aria ci separavano. “Ma è Coppi, è Coppi! Si vede benissimo dal suo stile”, gridarono. Infatti era proprio lui. Con celerità impressionante, se si pensava alla durezza del pendio, volò su per tre, quattro serpentine, trainandosi la macchiolina di color arancione. Ma ben presto restò solo.
Il sonnolento dondolare della schiena si ruppe. Sulla scia di Coppi altri due scattarono, separandosi dal grosso. Poi un’altra coppia ancora. E Bartali? Non si muoveva il grande? Sì, lo vedemmo da centro del plotone districarsi, poggiare a destra, incalzare a strappi. Ma, strano, si sarebbe detto che lo faceva senza convinzione, che non ci credesse, che supponesse tutto quel tramestio una innocua finta. Poi risalimmo in macchina e tra incauti nembi e alterne luci di sole si raggiunse il passo della Maddalena, perdendo di vista i corridori.
Non ne rivedremo più che due fino a Pinerolo. Il fuggiasco e l’inseguitore, i due massimi eroi, disputantisi a denti stretti il regno. Gli altri rimasero di dietro, sempre più indietro, separati da valloni e precipizi, lottando tra di loro strenuamente, ma ormai erano fuori di questione. Tutto era concentrato là, nel contrasto tra i due solitari e l’ansia teneva i cuori. Discesa a vortice la insidiosa strada della Maddalena, in una oscura valle s’incontrarono i gendarmi francesi disposti ospitalmente a tutti i bivi, si udì l’eco di voci diverse dalle nostre, la strada ancor rupestre ed erta si inerpicò senza misericordia verso il Col di Vars, altre montagne apparvero, ma tutte malinconiche e selvatiche (solo per pochi istanti alle nostre spalle apparve una roccia turrita e immensa con terribili pilastroni di ghiaccio violaceo). Si cominciò a capire perché dicevano che la tappa delle Dolomiti era uno scherzo in paragone di quella di oggi. Il colle della Maddalena sarebbe già bastato a sfiancare un toro. E si era appena cominciato.
La vittoria si pose al fianco di Coppi fino dal primo istante del duello. In chi lo vide non ci fu più dubbio. Il suo passo su quelle salite maledette aveva una potenza irresistibile. Chi lo avrebbe fermato? Ogni tanto per alleviare il tormento del sellino si sollevava sui pedali e pareva, tanto era leggero, che volesse distendere le membra per eccesso di vitalità, come fa l’atleta al destarsi da un lungo sonno. Si vedevano i muscoli, sotto la pelle, simili a serpenti straordinariamente giovani, che dovessero uscire dall’involucro. Come già sulle Dolomiti, marciava con assoluta calma, quasi ignorasse che un lupo incalzava alle sue spalle. Dall’auto della Casa, sempre al suo fianco, Zambrini lo osservava sorridendo, sicuro ormai del trionfo. (E al Pelide fattasi vicina – sì Minerva parlò: “Diletto a Giove – inclito Achille, or sì che giunto lo spero – il momento che in noi, su queste rive – spento alla fine, il bellicoso Ettorre – d’alta gloria andrem lieti”).
Al confine, presso il Colle della Maddalena, oltre 2 minuti di distacco; 4 minuti e 29 secondi in cima al Colle di Vars. E ora si affacciava in fondo a una lunga orribile gola, la muraglia paurosa dell’Izoard. Crollava dunque Bartali? Il maltempo, già suo fido alleato, non gli aveva dato alcun aiuto? Distrutta all’improvviso la sua leggendaria resistenza? No, Bartali era sempre lui: testardo, duro, implacabile. Ma come resistere a chi ha il favore degli dei. Era lurido di fango, la faccia grigia di terra e immota nello sforzo. Pedalava pedalava come se qualche cosa di orrendo gli corresse dietro e lui sapesse che a lasciarsi prendere ogni speranza era perduta. Il tempo, null’altro che il tempo irreparabile gli correva dietro. Ed era uno spettacolo quell’uomo solo nella selvaggia gola in lotta disperata contro gli anni (“Fu cara un tempo a Giove la mia vita e al saettante – suo figlio, ed essi mi campar cortesi – ne guerrieri perigli. Or mi raggiunse – la negra Parca. Non fia per questo – che da codardo io cada: periremo – ma gloriosi, e alle future genti – qualche bel fatto porterà il mio nome”).
Senza più vedersi perché, ogni minuto si ampliava tra di loro la barriera di valloni, di rupi, di foreste, gli avversari lottarono fino alla fine. Ecco i fantastici gradini dell’Izoard che toglierebbero il fiato a un’aquila e si conchiudono in un desolato anfiteatro di ghiaie a precipizio con torrioni di rocce gialle e di aspetto umano. Ecco la vertiginosa scalata di mille metri su Briancon. Non basta. C’è ancora la scalata del Monginevro: altri cinquecento metri di dislivello. È finito allora il massacro? Non è finito. C’è il quinto muro da scalare, il Sestriere, l’ultimo supplizio per castigare i peccati dell’uomo, altro mezzo chilometro di montagna da macinare coi pedali. Che importano le minuzie della cronaca in tanta battaglia. Che peso possono avere nel conto finale le cinque forature di Coppi e le tre di Bartali? Coppi vola senza più l’inquietudine delle prime ore, certo com’è di giungere solo al traguardo. E Bartali tiene duro. Ma in mezzo a loro i minuti adagio adagio si accumulano. Sono 6’46” al Monginevro, 7’17” a Cesana, quasi 8’ al Sestriere, saranno circa 12 allo stadio di Pinerolo.
Un vinto oggi, Bartali, per la prima volta. E questo è amaro anche perché ci ricorda intensamente la nostra comune sorte. Oggi per la prima volta Bartali ha capito di essere giunto al suo tramonto. E per la prima volta ha sorriso. Coi nostri occhi, passandogli accanto, abbiamo constatato il fenomeno. Uno dal bordo della via lo ha salutato. E lui, voltando un po’ la testa da quella parte, ha sorriso, lo scorbutico, lo scostante, l’antipatico, l’intrattabile orso dall’eterna grinta di scontento, proprio lui ha sorriso. Perché lo hai fatto, Bartali? Non sai di aver distrutto così l’ispido incanto che ti difendeva? Gli applausi, gli evviva della gente ignota cominciano a esserti cari? Così terribile è dunque il peso degli anni? Ti sei arreso finalmente?