Nel 1970 quando l’avventura cominciò al via c’erano 127 podisti. Domenica mattina, quando un colpo di cannone darà il via dal ponte di Verrazzano, a partire saranno in 50mila. Dopo essere stata cancellata due anni fa e ridotta al 60% l’anno scorso, quest’anno la maratona di New York torna a pieno regime e con una novità: la categoria non binaria, ossia quella delle persone che non si riconoscono nei generi maschile o femminile.  Da Staten Island a Central Park, un fiume in piena e un’onda azzurra che, con oltre duemila partecipanti, mette  l’Italia  al secondo posto dopo gli Stati uniti tra le nazioni per numero di partecipanti . New York non si smentisce mai: sogno proibito o possibile di ogni maratoneta. Si viene a correre qui almeno una volta nella vita,  poi i più fortunati tornano oppure vivono e rivivono la prima domenica di novembre con un po’ di nostalgia.  Qualche anno fa sul traguardo di Central Park, l’allora sindaco di New York Bill De Blasio aveva premiato il milionesimo concorrente arrivato al traguardo. Un numero infinito, inimmaginabile che però dà il senso di cosa sia diventata la corsa, di cosa sia diventata questa maratona che non sarà la più bella e la più antica ma per gli americani è la sfida possibile, l’alibi per poi sedersi sulla tavola di un fast food senza sensi di colpa. E’ la svolta salutista che Michelle Obama, quando arrivò alla Casa Bianca, chiese a Dean Kanarzes l’ultramaratoneta che Time ha inserito tra i 100 uomini più famosi d’America: «Siamo un popolo sovrappeso- gli disse- Devi farci correre…» E così ora corrono in tanti, quasi tutti. Belli, brutti, magri, grassi, giovani e anziani, madri e nonne… New York è la “terra promessa” di un popolo che non vuole avere rimpianti, con la folla sulle strade, i campanacci, le scritte, i sorrisi e i pianti. Con i suoi pettorali che, nonostante costino anche 500 dollari, devono essere contingentati per dare una possibilità a tutti di cucirselo addosso almeno una volta nella vita. É l’America che conosciamo, che ti dà sempre una possibilità. E la maratona di New York è la vetrina perfetta. Con centinaia di Paesi collegati in mondovisione è la scena ideale per ogni tipo di impresa. Per ricordare, per celebrare, per denunciare, per sostenere una battaglia. Chi vuol far sapere qualcosa al mondo viene a correre a New York. Che è una città che sembra un film di quelli già visti, di quelli che ti danno sempre la sensazione di esserci stato, di esser di casa. Una città che vale il viaggio. Sempre. Ma quando c’è la maratona forse di più. «E’ lunica che può cambiarti la vita. Se vinci da qualche parte del mondo diventi un atleta di primo piano ma se vinci a New York diventi famoso..» racconta ogni volta che glielo chiedono Gianni Poli, un pezzo di storia della nostra maratona, il primo azzurro a scendere sotto le 2ore e 10 minuti sui 42 chilometri, e vincitore nella grande Mela nel 1986. Esattamente trentadue anni fa. E a Poli, ma anche a Orlando Pizzolato che a Central Park è arrivato a braccia alzate nell’84 e nell’85 e a Giacomo Leone primo nel ’96 la Nycm la vita l’ha cambiata davvero. E non solo a loro. La vita un po’ la cambia a tutti perchè per un maratoneta correre a New York è il coronamento di un sogno che a volte ti fa nascere e rinascere. O almeno ricominciare. Perchè in quel fiume di gente c’è dentro di tutto, con la corsa che diventa il modo per riscattarsi, per prendersi una rivincita, per dimostrare a se stessi che non c’è difficoltà, sfortuna, malattia o destino contro cui non si possa lottare, combattere e magari vincere. Basta crederci e basta volerlo.  New York sono tante storie. Tutte da raccontare.