Quando lo sport fa (del) bene
Lo sport è l’Esperanto del mondo e vola alto. Perché è capace di unire, di aggregare, perché annulla differenze e discriminazioni che in questi tempi di vandalismi e squallidi cori che infestano le curve degli stadi è davvero una boccata di ossigeno. Perché lo sport fa bene e molto spesso anche «del» bene. E allora gli atleti diventano punti di riferimento per i più giovani, testimonial come si dice oggi, corrieri di ottimi messaggi, di battaglie civili, di raccolte fondi devolute a chi ne ha più bisogno. Tanto per cominciare, come ha detto poco tempo fa anche Papa Francesco, lo sport è l’arma più affilata per aiutare a combattere «cultura dello scarto» che porta e trattare uomini e donne come prodotti da usare e poi scartare. Una cultura «usa e getta» dove tutto si consuma in fretta, dove sempre più frettolose sono le relazioni e parole.
L’appello Francesco ha così chiesto aiuto allo sport e agli sportivi per recuperare quel senso di responsabilità educativa e sociale che il gesto di un campione può amplificare ovviamente nel bene e nel male. Tanti gli eventi che vanno in questa direzione, tante le raccolte di fondi, le «partite del cuore», le imprese sostenute da Telethon, ActionAid, dalla Rete del dono.
Ma c’è anche chi si mette in proprio, fa da sé, nel suo «piccolo» e comunque aiuta. E allora una maratona può diventare 365 maratone se la sfida è quella di recuperare fondi per la ricerca contro i tumori. Una maratona al giorno per un anno senza mai fermarsi, feste comandate comprese, che chilometro dopo chilometro porta a donare un milione di sterline alla ricerca. Pochi mesi fa a Cleator Moor, nel nord-ovest dell’Inghilterra, Gary McKee, 52enne inglese sposato con tre figli, operaio in una fabbrica che smaltisce rifiuti e maratoneta nel tempo libero ha firmato il suo record. Che non era fine a se stesso ma serviva proprio a raccogliere un milione di sterline da destinare alla lotta contro il cancro e da devolvere alla Macmillan Cancer Support e al West Cumbria Hospice at Home. Una sfida che è diventata un grande evento che ha coinvolto ed emozionato una nazione, che l’ha portato ad usare più di 20 paia di scarpe da ginnastica e a correre più di 15.300 chilometri. Non è nuovo a queste imprese: cinque anni fa aveva corso 100 maratone in 100 giorni e l’anno dopo 110. Ha attraversato il Brasile in bicicletta, ha scalato il Kilimangiaro e attraversato a remi il mare della Manica. Eppure 365 maratone di fila sono un’impresa titanica anche per lui, che è senz’altro un atleta, ma che nella vita fa dell’altro. Però aveva preso un impegno e, finito il turno si metteva le scarpe e cominciava a correre, spesso in compagnia di altri corridori, come l’allenatore inglese di rugby, Kevin Sinfield. «Le strade erano piene di gente, pioveva ma tutti applaudivano e gridavano- ha raccontato al traguardo ai microfoni della Bbc -. Me ne ricorderò sempre. È stato fantastico vedere tutti lì. È stato fantastico aiutare la gente…».
Non è il solo a mettersi in gioco per aiutare chi è meno fortunato. Oggi il crowdfunding (le sottoscrizioni che si legano agli eventi sportivi) affianca più o meno tutte le grandi maratone nel Mondo: da New York a Parigi, da Londra a Milano imprese e solidarietà viaggiano quasi sempre insieme. Ci si iscrive e con una quota del pettorale si sostengono associazioni, enti, campagne. La maratona di Milano, tanto per fare un esempio, lo scorso anno ha raccolto e devoluto oltre 620mila euro alle associazioni non profit che hanno aderito al suo programma. Ma lo sport fa del bene sempre. Ognuno fa ciò che può: grandi e piccole cifre anche con imprese che possono sembrare strane o impossibili. Lorenzo Catti, un ultrarunner lombardo di Caronno Pertusella, durante il lockdown non potendo uscire dai confini del proprio Comune ha corso in tutte le vie del suo paese per più di 86 chilometri in 8 ore e mezzo. Le ha fatte proprio tutte, un’impresa da «criceto» che è servita a raccogliere fondi per aiutare l’ospedale di Kalika, in Nepal. Una struttura che è il frutto della passione e della voglia di lasciare un segno di due alpinisti italiani, il compianto Mario Merelli e Marco Zaffaroni, e dell’aiuto di una onlus italiana «La Goccia» che con il duro lavoro di volontariato di diversi lustri ha portato a realizzare un presidio sanitario nel basso Dolpo, una delle zone più povere del Nepal. È una via: fai cose strane, attira l’attenzione, fai parlare di te e così le donazioni arrivano. Così ha fatto Colin Haylock, un giovane inglese di Richmond che qualche anno fa ha corso la maratona di Londra con un paio di scarponi da sci. Si sono chiesti tutti: perché? Per sostenere «Shooting star chase» una associazione che aiuta i neonati e i bimbi con handicap gravi e le loro famiglie per agevolarne cure e ricoveri. Che poi a volte è il caso a decidere. Un destino che ti si rivolta contro, ti fa credere che nulla abbia più valore.
E allora «aiutare chi aiuta» può essere la scintilla per ripartire. Ed è ciò che è successo a Sabrina Schillaci, architetto brianzolo con solide certezze, che un’estate di due anni fa ha dovuto ripensare la sua vita. A Ferragosto, durante una gita in barca, suo marito dopo un tuffo è rimasto paraplegico. Da allora lei ha azzerato tutto, anche un inizio di depressione, ed è salita in bici alla ricerca di un nuovo equilibrio e di una nuova normalità che è arrivata grazie allo sport. Con il suo progetto «Race across limit» la Schillaci ha cominciato così a girare l’Italia in bicicletta raccogliendo fondi per C.O.ME. Collaboration Onlus, che si dedica all’osteopatia, alla ricerca e a progetti sui bimbi prematuri. E poche settimane fa ha ripreso il suo «pellegrinare solidale» da Milano con una pedalata indoor con sei squadre che si sono date battaglia su rulli, una delle quali capitanata da Sonny Colbrelli che, dopo aver vinto una Roubaix e aver rischiato la pelle in corsa per un’aritmia, con la bici e con il destino ha un altro conto aperto. Il motto era ed è «aiutare chi aiuta» e Sonny ha dato una mano.