Si sa quasi tutto del Fiandre ma per capire bisogna correrlo
A Ronse c’è una birreria che si chiama “Vigorelli”, una bella insegna rossa che mette allegria e dà una botta di colore ad una giornata perfettamente fiamminga, grigia, fredda, ventosa e piovosa: ottima per correre un Fiandre dicono da queste parti. Poi però giri secco a sinistra, passi un murales con uno che sembra Roger de Vlaminck ma probabilmente non lo è, e ti ritrovi a fare i conti con un’arrampicata secca che si perde a vista d’occhio. Per fortuna non c’è pavè che qui è quasi ovunque e ti fa traballare come una bottiglia di vino in bilico su una lavatrice mentre centrifuga. Però il muro è tosto e, dopo un centinaio di chilometri il Vigorelli è davvero il posto dove vorresti pedalare, senza le sventagliate di vento e acqua in faccia , dove lasciar correre un po’ la bici che invece sembra un cancello pesantissimo da portar su. Sul Giro delle Fiandre si scrivono ormai quasi sempre le stesse cose. Ma quelle sono, per fortuna. Che ogni volta viene la pelle d’oca, che un conto è raccontarle, un altro è venire qui a viverle sulla pelle e annusarle… Dice scherzando Andrea Ferrigato, che ha corso 4 Tour, 8 Giri e una novantina di classiche monumento Fiandre compreso e che ora lo “corre” ancora come tour operator di Girolibero, che per capire che fatica si fa da queste parti almeno un volta bisogna venirci a pedalare. E allora ti spieghi come, dopo tanti chilometri, dopo tante pietre, dopo tanto vento, dopo tanto freddo, dopo tanta acqua e dopo tanto fango come oggi, scavallato l’ultimo muro, anche il cavalcavia che c’è prima del traguardo diventa una montagna. E e se uno parte lì e si prende cento metri non è detto che riesci più prenderlo, sembra facile solo quando sei davanti alla tv. Capisci come Van der Poel, Pogacar, Van Aert che domani daranno spettacolo al mondo intero davanti ad un milione di tifosi non siano umani, ma funamboli con motori da fuoriserie che volano dove gli altri, quelli normali, arrancano, si fermano a volte cadono. Si sa quasi tutto del “Fiandre”. Che è un monumento, che prima che arrivasse il Leone Fiorenzo Magni lo vincevano sempre i fiamminghi, che poi sono arrivati tutti gli altri, sempre fuoriclasse perchè questa è una sfida che non si vince per caso. Si sa che il Fiandre sono i muri, che è la storia del ciclismo, sono un Paese che pedala, che sta sui bordi delle strade ad applaudire, sono birra e panini aspettando la corsa, sono il pavè che non è un fastidio da asfaltare. Sono i paesini che vivono addormentati per un anno tra le campagne, tra case e cascine che sembrano un dipinto fiammingo, sono i cieli bassi, gli sterrati infiniti nei boschi e la brezza del mare del Nord. Sono strappi dai nomi impronunciabili dove le bici imbizzarriscono, i muscoli pure, dove si va su come ubriachi, dove piuttosto che mettere un piede a terra uno se lo fa tagliare. Sono il pavè del Paterberg, la chiesetta del Kappelmuur che in tanti si segnano quando passano, sono le pietre grezze del Koppenberg, l’infinità del Kwaremont dove la fatica è una smorfia che sfigura le facce. Non c’è una storia che inizia e finisce. Non c’è gruppo compatto, non c’è scia, non ci sono treni. Qui più che altrove ognuno per sè e Dio per tutti. Non è il ciclismo eroico perchè “nell’inferno del Nord” la retorica è gratis e nessuno la vuole più. E’ solo storia che tiene insieme tutte queste cose e che un giorno del secolo scorso divenne leggenda ovviamente per caso, quando il giornalista, indipendentista fiammingo Karel van Wijnendaele per far pubblicità al suo giornale lo Sportwereld organizzò il Fiandre per la prima volta. Va così, le grandi epopee cominciano sempre per caso. E la Ronde in un secolo è diventata il riscatto della Vallonia, terra ordinata e perfetta, di villette e giardini, dove fa buio in fretta, dove il tempo scorre lentissimo, dove il ciclismo è religione e la Ronde è la messa di Natale. Si aspetta come si aspetta il Natale, si santifica come il Natale, si gode della vigilia che fa fremere e sperare e poi vola via tutto in un giorno, troppo in fretta, lasciando il magone di un anno che, dopo lo sprint, dovrà nuovamente passare. Tradizioni che sono diventate pane quotidiano per chi ha nel sangue le corse del Nord. Per chi vive quel ciclismo lì che è uno sport ma anche uno stile, una “fissa”, un modo di essere fuori dalle convenzioni e dalle rotte. Le classiche del Nord sono corse fuori concorso e fuori-tempo, sono una rivoluzione fatta col “32”, sono il folk-rock combattente suonato in chiesa. Ognuno ha il suo ciclismo e questo forse è quello che ti tira dentro di più.