Gino Mader  non ce l’ha fatta.  Giovedì, durante la quinta tappa del Giro della Svizzera, era caduto in un dirupo tra Fiesch e La Punt, lungo la ripida discesa del passo dell’Albula, ed era finito sulle rocce. Un volo di una trentina di metri che non ha gli lasciato scampo. Atterrato sulle pietre di un ruscello era stato trovato privo di sensi. Rianimato sul posto, era volato in elicottero all’ospedale di Coira, giungendovi in coma. «Nonostante gli sforzi della fenomenale squadra dell’ospedale – ha scritto in una nota la Bahrain-Victorious – Gino non è riuscito a portare a termine la sua ultima e più grande sfida e alle 11:30 abbiamo dovuto salutare una delle nostre luci…Siamo devastati». Nato 26 anni fa  a Flawil, nel Cantone di San Gallo,  Mader era diventato professionista 5 anni fa ed  era una delle principali speranze svizzere nelle corse a tappe.  Già prima però aveva dimostrato di essere un grande talento con due medaglie d’argento rispettivamente agli Europei su pista (2014) e ai Mondiali su pista juniores (2015). Una volta passato ai professionisti, con la sudafricana Dimension Data (poi Ntt) era riuscito a conquistare ben otto vittorie su strada, le ultime risalgono al 2021: sesta tappa al Giro d’Italia e l’ottava tappa al Giro di Svizzera.  E’ il secondo ciclista svizzero a perdere la vita in una competizione. Prima di lui, nel maggio del 1934, la stessa tragica sorte era toccata a Emil Richli, che aveva preso parte all’inseguimento a squadre alle Olimpiadi del 1924, e cadde durante una competizione su pista. E’ una tragedia che ricorda da vicino le cadute drammatiche di Fabio Casartelli nel 1995, nella discesa du Portet d’Aspet, durante la 15 ma tappa del Tour de France e del belga Wouter Weylandt nel 2011, nella discesa del Passo del Bocco, nella terza tappa del Giro. “Oggi la gara è stata neutralizzata-  ha annunciato l’organizzazione- Il gruppo partirà negli ultimi 30 chilometri e formerà un corteo in omaggio al corridore”. Ma le polemiche non mancano e già giovedì sera il campione del mondo Remco Evenepoel aveva criticato su Twitter la scelta di completare la tappa con un percorso del genere, troppo pericoloso:  “Poiché un arrivo in alto sarebbe stato perfettamente possibile- aveva scritto il belga- non è stata una buona decisione lasciare che i corridori finissero questa pericolosa discesa…”, aveva scritto il belga.  Ogni volta che lo sport si lista a lutto si apre il dibattito sui rischi, sui pericoli, sui perchè. Così se in pista muore un centauro il tema del giorno diventa la pericolosità delle corse in moto, se muore un alpinista  il rischio delle spedizioni in montagna, se muore un ciclista la pericolosità del ciclismo e così via. Sacrosanto discuterne, soprattutto per la sicurezza. Se così non fosse stato in tutti questi anni probabilmente conteremmo più vittime perchè i circuiti sono diventati più sicuri e le corse in bici anche, tanto per restare ai due esempi di prima. Ma il rischio c’è sempre.  C’è nelle gare, c’è in ogni cosa che facciamo, fatalità  legata  al destino. Solo che quando si muore mentre si sta correndo, mentre si sta pedalando o sciando in una gara di coppa del mondo lo shock è terribile.  La morte di un atleta è terribile perchè non te l’aspetti, non la metti in conto in una situazione che è sempre esattamente il contrario e cioè l’esaltazione della vita, della gioia, del benessere condensato in un gesto. L’emozione è profonda e amplifica il sentimento di smarrimento e di paura. Resta il disagio di raccontare una tragedia, perchè di ciò ogni volta si tratta. Resta una domanda che trova risposte sempre diverse. Ma quando in una gara, in una corsa, in un giro muore un atleta la gara non andrebbe fermata? O è’ giusto che tutto continui?