I Giusti non sono nè santi nè eroi. Sono persone che coraggiosamente hanno salvato la vita degli altri ma anche diritti e dignità. E lo sport li abbraccia raccontando imprese di atleti che hanno scelto il Bene e la Verità e che hanno infranto il dogma che quel mondo basti a se stesso e si disinteressi di ciò che gli succede intorno. Storie raccolte in un libro, «I giusti e lo Sport» pubblicato dalla Libreria Editrice Cafoscarina nella collana Campolibero della Fondazione Gariwo con la premessa dello storico e scrittore Gabriele Nissim, fondatore e presidente della Fondazione Gariwo e curato dal giornalista Gino Cervi. Vicende di guerre, di antinazismo, di vite nascoste, rincorse, salvate, di lotte, di coscienza e di gesti coraggiosi. Un bel viaggio nel tempo, dagli Anni Trenta del Novecento ad oggi, che riscopre e permette di non dimenticare campioni eterni raccontati dalle penne di scrittori e giornalisti come Gianni Mura, Giulia Arturi, Giovanni Cerutti, Joshua Evangelista, Cristina Giudici, Fabio Poletti e Alberto Toscano. Sportivi che con classe e fantasia hanno interpretato le proprie discipline nelle diverse epoche e sono diventati simbolo dello spirito dei loro anni
E allora come non ricordare Augusta Fornasari, operaia-ciclista che pedalando diventò staffetta partigiana nella brigata Venturoli Garibaldi e nella primavera del 1945 iniziò la sua Resistenza garantendo il collegamento tra le formazioni clandestine. Oppure Nasim Eshqi, freeclimber iraniana, una vita ad arrampicare, che ha messo a disposizione degli attivisti il suo profilo Instagram ed è diventata la voce degli iraniani che vogliono il cambio del regime. O come non raccontare la storia di Matthias Sindelar, calciatore austriaco, uno dei più grandi centravanti della storia, il Mozart del calcio che si oppose alla violenza nazista. Dopo che l’Austria fu annessa al Reich in virtù dell’Anschluss, la nazionale in pratica fu sciolta. L’ultima partita fu quella della «riunificazione» organizzata al Prater di Vienna il 3 aprile del 1938. Un incontro che doveva sancire l’union con il passaggio dei giocatori austriaci nelle file della nazionale del Terzo Reich. I vertici della Gestapo consentirono alla Ostmark, così veniva chiamata l’Austria, di scendere in campo per l’ultima volta con maglia rossa e calzoncini bianchi ma a una condizione: avrebbero dovuto perdere. Non finì così. Sindelar segnò e guidò i suoi alla vittoria rifiutandosi poi di fare il saluto nazista alle autorità e di far parte della nazionale del Reich. La mattina del 23 gennaio fu trovato morto nel suo appartamento insieme a una ragazza italiana, l’insegnante milanese di religione ebraica Camilla Castagnola. E altre storie più note. Da quella di Gino Bartali, campione che ha attraversato da un capo all’altro il XX secolo trasportando dispacci nel telaio della sua bicicletta per tenere informate le famiglie dei perseguitati tra Firenze ed Assisi a quella di Albert Richter, «ariano», uno dei più grandi pistard della storia che sfidò il Fuhrer per difendere la sua grande amicizia con l’allenatore ebreo Ernst Berliner e venne ucciso in carcere con una fucilata. E ancora Emil Zatopek e sua moglie che si schierarono contro i carri armati sovietici a Praga. Zatopek, la «locomotiva umana», era qualcosa di più di un grande atleta: l’unico nella storia a vincere, nel 1952 ai Giochi di Helsinki, tre medaglie d’oro sui 5mila metri, sui 10mila e in maratona dove decise di partecipare all’ultimo momento. Corse anche attraverso la storia del suo Paese, la Cecoslovacchia. Un talento scomodo per il regime comunista di cui era dirigente ma dell’ala più democratica. Non sfuggì a nulla. Nè alla primavera di Praga, nè al suo declino e neppure al confino in Siberia ai lavori in miniera. E quando, rimpatriato, finì a fare il netturbino continuò a correre dietro ai camion della spazzatura tra gli applausi della gente. Contro il regime e contro il razzismo. Così, alzando i pugni al cielo su un podio olimpico. I guanti neri sono quelli che nel 1968 avvolsero le mani di Tommie Smith e John Carlos, allo stadio di Città del Messico durante la premiazione dei 200 metri olimpici in cui i due velocisti americani arrivarono primo e terzo. Quando risuonano le note di The Star-Spangled Banner nello stadio abbassano la testa e sollevano i loro pugni al cielo in quella che è diventata una delle immagini più dirompenti del Novecento, simbolo di un decennio di proteste per i diritti civili dei neri. Gianni Mura nel raccontare la loro storia in realtà raccontò quella dell’australiano Peter Norman che arrivò secondo. Lui, bianco, che aderrì quella protesta e la pagò carissima. Sparì, venne cancellato dalla Federazione australiana che non gli permise partecipare ai Giochi di Monaco del 1972 a cui si era qualificato e non lo coinvolse neppure nell’organizzazione delle olimpiadi di Sidney. Morì il 3 ottobre del 2006 e al suo funerale la sua bara fu portata in spalla proprio da Smith e Carlos. Disse Carlos alla famiglia di Norman: «Avete perso un grande soldato, per me era un fratello…».