A  parte il Barbotto, a parte la magia di Firenze, a parte il Galibier e un paio di scatti non è ancora successo quasi nulla e quindi meglio non esagerare con gli aggettivi se no poi, quando il bello verrà, sarà difficile trovarne. Il Tour è il Tour anche quando annoia, quando scorre lento  come oggi, con 188 scontati chilometri verso Digione che si infiammano solo negli ultimi cento metri con la volata vincente di Dylan Groenewegen che si mette dietro Jasper Philipsen poi declassato per aver chiuso alle transenne un redivivo Wot van Aert.  Ma il Tour è il Tour a prescindere da ciò che accade, evento mondiale, corsa di campioni, sfida che vale soldoni e prestigio tanto quanto un Supebowl, un’olimpiade o una finale di Champions. Evento che muove un Paese, che lo ama, lo segue, lo racconta, ci investe e  gli dà le prime pagine dei giornali e non solo dei giornali: altro che calciomercato, vacanze vip di calciatori e veline, tradimenti e matrimoni.  Bisogna farsene una ragione: le altre sfide sembrano  da strapaese al confronto, quindi inutile strapparsi le vesti, insistere con i paragoni impietosi, provare a spiegare, dolersi, arrabbiarsi. Se altrove la corsa langue un motivo ci sarà. Qui non c’è tempo, o meglio c’è un tempo che non si è mai fermato ed è stato capace di rincorrere quel ciclismo globale di cui tanto si parla ma forse non si capisce bene cosa sia se non la necessità di andare a prendere i soldi dove ci sono. Che era poi quello che facevano tanti anni fa gli organizzatori delle garette di strapaese quando molestavano i “cumenda” della zona a caccia dei “danè”. E se servono tanti denari per organizzare il Trofeo tal dei tali figurarsi per Giro o Tour. E allora ci si abitua a tutto . Anche a un Giro che nei prossimi anni partirà dagli Stati Uniti e a un Tour de France che ha rischiato, come aveva annunciato il Thai Tourism Authority un paio di anni fa, di far tappa in Thailandia. Ma forse era troppo anche per i francesi e allora ben vengano Firenze e l’Italia. E se la legge è quella dello sponsor è una legge che non fa sconti. Alla storia, all’epica della corsa, al suo passato e ai suoi eroi. Tutto ha un prezzo. Una partenza, un arrivo, una tappa, un traguardo volante un gran premio della montagna anzichè un altro. Poi però bisogna pedalare e allora la differenza tornano a farla i campioni, le fughe e le salite. Tornano a farla i grandi nomi. Quest’anno al Giro c’era Tadej Pogacar, solo lui, ed oltre a vincere un po’ il Giro l’ha salvato. In questi giorni sulle strade del Tour oltre al campione sloveno ci sono Jonas Vingegaard, Remco Evenepoel, Primoz Roglic, Mathieu Van der Poel, Wout van Aert, Egan Bernal e si potrebbe continuare. Ma non serve perchè, come cantava De Gregori: “Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi…”