Roglic, vincente senza essere un predestinato
“Saro in Svizzera al mondiale ma prima voglio tornare a casa per recuperare le forze spese in questo mese in Spagna…”. Così Primoz Roglic in un’intervista al quotidiano spagnolo Marca. Dopo la Vuelta quindi lo sloveno mette nel mirino il mondiale anche se sarà interessante capire quali saranno le dinamiche nella sua nazionale che schiera ovviamente come punta Tadej Pogačar che sul mondiale, costruito quasi su misura per lui, ci punta eccome un po’ per scacciare un tarlo che gli è rimasto in testa dopo il bronzo dell’anno scorso, molto per mettere il sigillo finale ad una stagione che con la doppietta Giro Tour lo ha consegnato alla storia e per far ciò di cui sono stati capaci solo Eddy Merck nel 1974 e Stephen Roche nel 1987.
Ma Primoz Roglic è Primoz Roglic e tutto questo lo sa perfettamente. Ma sa anche che un campionato del mondo resta un “campionato del mondo” e un campione come lui non può accettare a tavolino un ruolo da comprimario. Quindi si vedrà. Intanto tira il fiato e fa anche un piccolo bilancio di una stagione che lo ha visto arrivare con la maglia rossa a Madrid in una corsa che avrebbe dovuto sbrigare quasi come una formalità e che invece è si è tanto complicata, diventando una vera e propria impresa in rimonta dopo la fuga bidone che aveva stravolto la classifica generale e consegnato il comando ad un coriaceo Ben O’Connor che alla fine si è piazzata secondo. Per il corridore della Red Bull-Bora-Hansgrohe è il quarto trionfo personale nella classifica finale della Vuelta (dopo le vittorie nel 2019, 2020 e 2021) che eguaglia il record di successi in questa corsa, stabilito dallo spagnolo Roberto Heras nei primi anni 2000.
Strana storia ciclistica quella di questo campione nato 35 anni fa a Trbovlje, un paesone di 20mila abitanti nella Slovenia Centrale in una zona nota più per i suoi giacimenti di carbone e per le centrali termoelettriche che per tradizioni ciclistiche. Strana perchè cominciata tardi, con una gavetta vera nelle corse dilettantistiche e praticamente per caso. Il ciclismo infatti non è il suo sport da subito. Da ragazzo la passione è quella degli sci, sci lunghissimi quelli che lo portano a volare dai trampolini del salto e anche con ottimi risultati visto che a 18 anni conquista con il quartetto nazionale il titolo mondiale juniores. Ma nel 2007, in un gara del campionato d’Europa, mentre è in volo viene spazzato via da una raffica di vento che gli fa perdere l’equilibrio e lo fa atterrare rovinosamente sulla neve. Non è un impatto morbido, anzi. Finisce in ospedale privo di sensi ed inizia un lungo periodo di convalescenza prima di tornare a saltare.
Convalescenza che fa in bici, un vero e proprio colpo di fulmine, tant’è che la passione per il ciclismo inizia a scorrergli sottopelle. Ottimo passista, anche scalatore, anche cronoman inizia a correre per fatti suoi, poi con alcune squadre dilettantistiche e nelle Granfondo dove vince diverse volte cominciando a farsi notare. Nel 2013 finalmente trova un contratto da professionista con l’Adria Mobil, un importante team sloveno. La carriera di “Rogla” come lo chiamano un po’ tutti comincia qui. Ma non è in discesa. Anzi.
Diventa capitano di una squadra per la prima volta a trent’anni, con la Jumbo Visma al Giro del 2019 dove sale sul terzo gradino del podio alle spalle di Richard Carapaz e Vincenzo Nibali. Poi comincia a vincere. Il Giro, un poker alla Vuelta, l’oro olimpico a cronometro a Tokyo, la Liegi, due volte Delfinato, due volte la Tirreno-Adriatico, due Giri di Romandia, quello dei Paesi Baschi, una Parigi-Nizza e una Volta Catalunya, tre Giri dell’Emilia, una Milano-Torino e via dicendo. Insomma un “big” a tutti gli effetti, uno con cui si devono sempre fare i conti, da mettere sempre tra i favoriti.
Ma non un predestinato. Non si capisce bene perchè ma “Rogla” , nell’immaginario comune, è come se fosse sempre costretto ad inseguire quella nuova generazione di fenomeni che risponde ai nomi di Pogacar, Vingegaard, Evenepoel e Van der Poel, Van Aert. Come se fosse sempre una ruota dietro. Come se la sua immagine si fosse fermata a quella fotografia che lo ritrae nell’ultima cronoscalata del Tour, quello già vinto e poi perso, che lo vede arrivare sul traguardo de La Planche des Belles Filles con l’aria stralunata e il caschetto di traverso battuto da un giovanissimo Pogacar, fino ad allora promessa ma nulla di più. Un po’ goffo e sconfitto. Come capita spesso nel ciclismo, come capita a tanti. Ma nel suo caso sembra quasi pesi un po’ di più. Quella immagine gli è un po’ rimasta addosso, fa fatica a scrollarsela via. Nonostante tutto, nonostante tutte le vittorie, Nonostante sia, con quindici successi nelle classifiche generali delle corse a tappe, il terzo più vincente di sempre nella storia del ciclismo a sole tre lunghezze da Eddy Merckx e a due Jacques Anquetil. Mica due qualunque
E allora dopo un piccola pausa si riparte. Come sempre non da favoritissimo ma con tanti obiettivi per cui lottare e con la convinzione (giusta) di potersela giocare. Cosa farà l’anno prossimo ancora bene lo so sa, così risponde ai giornalisti spagnoli: “Sono decisioni dure da prendere- spiega a Marca- So solo che per vincere una corsa devi essere il migliore, al di là dei nomi dei rivali. Evenepoel in squadra con me? Sono argomenti sempre difficili da trattare, anche perché parliamo di qualcosa che non è accaduto. Quel che è certo è che io ho un ottimo rapporto con la mia attuale squadra, così come ne è rimasto uno buono con la Visma-Lease a Bike…” C’è tempo per riflettere. Prima bisogna pensare al mondiale di Zurigo e magari anche al Lombardia. E “Rogla” c’è…