Ora va di moda essere resilienti. Ma Eschilo lo sapeva già…
iamo tutti resilienti ormai. Va di moda così. Resilienti quando c’era la pandemia, quando si tratta di pagare le bollette, a scuola, al lavoro nello sport…Si fa presto a scriverlo, a dirlo, a postarlo sui social come se ciò servisse ad aggiungere valore a sentimenti più semplici ma egualmente sostanziosi come caparbietà e costanza. E’ tutto un fiorire di imprese resilienti e spesso a sproposito. Che poi la fatica, la capacità di farla, di sopportarla e di andare oltre è storia antica. “Pathei mathos”, appreso nel dolore. Due parole furono sufficienti ad Eschilo per spiegare cosa fosse la fatica in Agamennone e a cosa servisse. Il drammaturgo greco teorizzò come la conoscenza si potesse formare solo attraverso la sofferenza e tutto cominciò da lì, allora come oggi, come sempre. Ma la fatica porta ad altro, è connaturata al vivere quotidiano. La fatica è la strada necessaria, il prezzo da pagare per arrivare ad un risultato, per dare un senso compiuto ad ogni obbiettivo, ad ogni sogno. Impossibile misurarla, non ci sono parametri rigorosi: è un “vissuto ad personam” perchè ognuno ha la propria di fatica , la propria soglia di dolore, il proprio limite. Ma poco cambia perchè la fatica è una via obbligata per arrivare alla meta. Ed è un concetto che però a volte sfugge, soprattutto in anni e in un mondo che in tutti i modi la fatica tenta sempre più di azzerarla e di annullarla. Il pensiero corre alla tecnologia che progredisce in tutti i campi ed elabora modelli che servono ad alleviare il peso delle nostre attività. E ci sta. Ma qualcosa si perde. Perchè è solo facendo fatica che si impara, si apprezza, ci si rafforza, si diventa più adatti. Ed è solo facendo fatica, “affaticandosi”, che il corpo e i muscoli si difendono, indicano qual è il limite oltre il quale non andare, impongono di fermarsi, a volte retrocedere, e recuperare. Chi è onesto, soprattutto con se stesso, lo sa prima che quasi sempre dovrà far fatica, che non possono valere sconti e scorciatoie per vivere in pace di coscienza, che il premio arriverà anche se non è mai scontato. Scriveva alla fine dell’800 Angelo Mosso, medico e fisiologo, un libro dal titolo emblematico: “La Fatica”. Nulla più, senza spiegazioni e senza sottotitoli. Spiegava, lui nato in una famiglia operaia molto povera con un’ infanzia passata nella bottega da fabbro del padre, quale fosse l atteggiamento nei confronti della vita fondato sull’idealizzazione del sacrificio. Un “trattato” di filosofia “mossiana” divenuto imprescindibile nel tempo anche nelle sue sintesi estreme: “La fatica, che pure dobbiamo considerare come un avvelenamento, può alterare la costituzione del sangue e le condizioni della vita, senza che l’avvertiamo- scriveva- Ma non porta sempre con sé un quid di negatività. E’ sempre necessario forzare la mente perché inizi a lavorare ma poi la nostra macchina, funzionando, non si deprime e non scema la sua forza, ma diviene anzi più atta al lavoro”.