Difficile in un finale così raccontare il quarto Tour vinto da Tadej Pogacar o la vittoria fantastica di un campione allo stato puro come Wout Van Aert. Parigi non è Nizza, non è passerella, non è una tappa per velocisti perchè Parigi “regala” ai ciclisti l’ultima fatica,  lo strappo terribile di Montmartre da fare e rifare per tre volte, una “cote” eredità dei Giochi Olimpici che arriva proprio in cima alla Ville Lumiere passando sotto quel gioiello di fino ‘800 che è la Basilica del Sacro Cuore.

L’ultima tappa del Tour de France è una cartolina da Parigi che fa venire la pelle d’oca, che fa vedere al mondo che magia è il ciclismo, una gigantografia di bellezza con il gruppo che passa attraverso il Museo del Louvre e lascia senza fiato. Che passa sui Campi Elisi, sopra la Senna, che gira intorno all’Arco di Trionfo che accarezza la Torre Eiffel con la “firma” della pattuglia della pattuglia area transalpina, l’Armée de l’Air et de l’Espace come dicono con la solita enfasi i cugini…

L’ultima tappa la vince un gigantesco Wout Van Aert, essenza di un ciclismo d’autore che rende magico e romantico ogni successo e, a suo modo anche, ogni sconfitta. Ma oggi sul muro magico dove sono assiepati decina di migliaia di tifosi e che  le olimpiadi hanno consacrato al ciclismo che conta il fiammingo torna ad essere il campione che è che qualcuno ha messo in discussione. Sull’ultimo strappa piega un Pogacar forse affaticato da tre settimane di corsa in testa e i suoi compagni di avventura e va a regolare i conti con il destino forse on un delle sue più belle vittorie di sempre. Van Aert c’è a Parigi e c’è ancora per il ciclismo tutto che ovviamente tira un sospiro di sollievo perchè un fuoriclasse del genere fa bene a tutti.

Il resto è tutto colorato di giallo. Un giallo coraggioso e tenace perchè con un Tour in tasca e con una pioggia battente che rende infido il pavè poteva forse correre di conserva. Ma il bello del fuoriclasse sloveno è proprio questo: correr senza risparmio, correre per vincere, correre davanti per dare spettacolo. “Firma” un poker fantastico che non conferma la sua grandezza di cui tutto o quasi si è già detto, perchè cosa vuoi aggiungere al racconto di un gigante di 26 anni che ha già vinto anche un Giro d’Italia, due Giri delle Fiandre, tre Bastogne Liegi, quattro Giri di Lombardia e un mondiale? Sinceramente poco.

Pogacar è Pogacar, unico e uno solo. Difficile dire se sia più talentuoso, più forte, più campione di altri perchè in questi  anni di dominio ha dato una impronta talmente sua alle corse, alle vittorie, alle sconfitte (rare) e al suo essere testimonial di un ciclismo nuovo nell’atteggiamento tattico e non solo tattico che non può essere paragonato a nessuno. Pogacar attacca anche quando non dovrebbe, scatta anche quando potrebbe risparmiarsi, vince e stravince ma più  che un cannibale pare un “rivoluzionario” che stravolge i luoghi comuni del ciclismo di sempre. Non è Eddy Merckx, Bernard Hinalt, Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Miguel Indurain, Stephen Roche o Marco Pantani perchè  è un campione assoluto figlio dei suoi giorni. E il più grande in questo momento e non solo per un fatto tecnico, perchè pedala diversamente in salita, perchè è più forte a cronometro perchè domina anche le classiche. La differenza è nello sguardo. Lo sguardo sereno  di uno che sta scrivendo un pezzo di storia del ciclismo con la leggerezza di chi non se la “tira” e sembra neppure prendersi sul serio. Ecco la differenza tra Pogacar e tutti gli altri forse è proprio questa: nè Cannibale, nè Pirata, nè  Tasso. Basta guardarlo negli occhi….