E’ arrivato  l’autunno e il ciclismo su strada, che una volta si fermava, oggi invece si limita a “rallentare”. Ma questa resta la stagione della pista e delle Sei Giorni. Ciclismo antico e di fascino che dal Kuipke Velodrome di Gent in Belgio al Lee Valley Velodrome di Londra ma anche a Berlino e a Bremen in Germania racconta una storia che profuma d’altri tempi.

Tempi in cui anche da noi c’erano i velodromi, tempi in cui anche Milano aveva la sua Sei giorni prima al palzzo delle Scintille in Fiera dove nei prossimi anni potrebbe ritornare e poi nello sfortunato Palazzo dello sport crollato sotto il peso della nevicata del 1985. Era spettacolo nello spettacolo con Francesco Moser,  Beppe Saronni, Patrick Sercu, Renè Pijnen, Marco Villa, Silvio Martinello e quanti altri ancora. Una settimana di ciclismo che metteva insieme sport, spettacolo, campioni in pista, cantanti sul palco, vip e politici attovagliati al ristorante nel centro del velodromo più interessati a farsi vedere che a vedere i corridori. Tribune sempre piene perchè Le Sei giorni piacevano e facevano il tutto  esaurito di tifosi.

Rappresentavano un formato unico nel ciclismo professionistico con i corridori “confinati” nel palasport non solo a sprintare sulla pista ma anche a condurre la loro routine quotidiana inclusi pasti e riposo per quasi una settimana , che oggi pare impossibile anche solo a pensarci. Per qualcuno erano “americanate”  con  i campioni a sfidarsi in pista in cinque o sei specialità e il pubblico diviso in due categorie: la lower–middle-class che poteva permettersi solo l’ingresso alla Tribuna Pubblico posta al di sopra della pista e la upper-middle-class che se ne stava in mezzo alla pista nella zona adibita a ristorante tra politici, vip e soubrette.

C’erano le sei giorni tra volate, americane,  eliminazioni, gomitate, punti, accordi  più o meno sottobanco, patti tra gentiluomini e non sempre tra gentiluomini, premi, sponsor, cavalieri del lavoro e commendatori a premiare i voncitori e un’idea di ciclismo più ruspante ma anche più romantica. C’era una volta il ciclismo delle Sei Giorni ed oggi da qualche parte resiste ma bisogna andarselo a cercare. E c’erano una volta anche  i derny, roba per nostalgici. Roba da olandesi e da fiamminghi. Roba per malati della pista dove una volta s’imparava ad andare in bici e a vincere le volate .

Cera una volta quella motoretta con i pedali e c’erano una volta quei piloti un po’ strani in tuta e caschetto, metà centauri metà ciclisti, che si portavano a ruota gli sprinter sulle paraboliche dei velodromi. Un pezzo di storia . Un ciclismo che ora è retroguardia che fatica a sopravvivere e a trovare sponsor. Però il fascino resta. Intatto come spesso capita per le sfide di una volta.  Trenta, cinquanta, settanta, ottanta all’ora a girare in tondo con i derny che si affiancano, si superano, si fiorano e a volte si toccano. Che diventano tutt’uno con chi pedala in scia. Ciclista e pilota, pilota e ciclista, un corpo solo, un solo respiro, un solo gesto e un’intesa che è un misto di perfetta abilità fino a quando, a qualche giro dal termine, moto e bici si separano come missile e navicella. E ‘alta scuola della velocità dove si spingono rapporti impossibili, le forcelle stanno un po’ più indietro e dove i body sono più attillati che nelle cronometro. Qui si fa lo show e qui i velocisti diventano davvero velocisti. Noi qui facevamo scuola. Anche alla Sei Giorni di Milano. Che purtroppo non c’è più. Che si spera possa tornare…