Fa riflettere il fatto che oggi, leggendo i giornali, molto spazio ( troppo) se lo prenda il match di boxe  combattuto la notte scorsa a Miami tra lo  youtuber Jake Paul e l’ex campione dei pesi massimi  Anthony Joshua che lo ha lasciato in piedi ( bontà sua)  per sei riprese,  giusto forse il tempo previsto dal contratto, e poi ha messo ko con un gancio destro al volto che gli ha fratturato la mascella mettendo fine ad una “pagliacciata” che da Mohammed Ali a Rino Tommasi ha fatto rivoltar nella tomba in parecchi.

Fine del match, fine della boxe e fine dello sport in genere sempre più in caduta libera, prigioniero di sponsor, denaro, business, social e influencer. Ma la deriva disastrosa degli ultimi anni non riguarda ovviamente solo la boxe che ha addirittura rischiato l’esclusione dalle olimpiadi per lasciar spazio alla breakdance o allo skatebord,  Senza nulla togliere alla breakdance o allo skateboard e allo sport che cambia e quindi si adegua si fa davvero fatica a pensarle discipline olimpiche alla pari del pugilato che da Nino Benvenuti a Teofilo Stevenson, giusto per citarne due, ha regalato alla storia leggende assolute.

La deriva riguarda la boxe perchè un match come quello tra Joshua e Paul non avrebbe mai dovuto disputarsi ma poi, a macchia d’olio sta contagiando tutto il resto. Non ci vuol molto a capire, a mettere  in fila qualche esempio che in questi giorni spiega,  meglio di tante chiacchiere, quanto lo sport sia ormai ostaggio dei denari, dei fondi, delle logiche di marketing, di consigli di amministrazione che lo hanno fatto diventare primaria fonte di guadagno. Chissenefrega della passione, della maglia, della storia e delle bandiere: vale il profitto.

E allora pazienza se la Supercoppa  italiana di calcio ( già di per sè  inutile) si giochi a Riad praticamente senza pubblico, con gli spalti gremiti di figuranti, con tifosi vestiti con maglie e sciarpe nerazzurre che urlano “forza Milan” perchè non sanno, perchè così gli hanno detto, perchè così sta scritto nel contrattino che gli hanno fatto per portarli allo stadio. Pazienza se Milan e Como giocheranno una partita di campionato in Australia a Perth  con arbitri asiatici, senza tifosi, dopo 14 ore di volo, con un  un fuso orario di di mezza giornata, con le gambe e la testa frullate da una trasferta che più lontana non si può. Pazienza anche se le prossime olimpiadi invernali  si facciano, non in montagna come dovrebbe essere, ma in una città dove la neve  ( quando arriva) è solo un fastidio da rimuovere il più in fretta possibile. E ancora pazienza se la fiaccola olimpica, simbolo dei simboli, icona della purezza dello sport inteso come agone e sfida finisca nelle mani cantanti, attori, soubrette einfluencer e non di chi lo sport lo ha fatto e  ha vinto medaglie.

Forse è questo lo sport che ci meritiamo. Quello a cui dobbiamo rassegnarci, a cui ci si deve arrendere perchè le nuove regole di ingaggio queste sono e a scriverle  non sono gli sportivi ma chi con lo sport ci fa business e affari. La passione lascia il posto ai profitti, ormai va così. Ed è una realtà che nel calcio accetta un pubblico di plastica e cambia il colore delle maglie e anche quello dei palloni, che nella boxe porta sul ring chi l’epica e la nobiltà del pugilato la calpesta, che ha ridotto i Giochi ad un carrozzone in cui sono ammesse anche le camparse.

Però è bello guardarsi indietro. E’ bello pensare che, nello stesso giorno  in cui a Miami va in scena una buffonata che è un insulto a tutti gli atleti che nella storia sono saliti su un ring e ancora oggi tra mille sacrifici continuano a salirci,  qualcuno ricordi la scomparsa di Enzo Bearzot. Era il 21 dicembre di 15 anni fa quando il “vecio” se ne andò.  Naso da boxeur, pipa perennemente tra le labbra accarezzata da mani che tradivano origini popolari, era un monumento del calcio, ma soprattutto un uomo di sport che incarnava perfettamente i valori dello sport: lealtà, coerenza e coraggio. Non era taciturno, né introverso soltanto non gli piaceva sprecare le parole. Fosse stato come lo dipingevano, non avrebbe mai creato il gruppo che conquistò il terzo titolo mondiale del calcio italiano nel 1982 in Spagna. Un gruppo che non si è mai sciolto,  che ha mantenuto i contatti, che ha plasmato, che ha amato,  cresciuto sostenuto e  difeso contro tutto e tutti.

Era un altro mondo, un altro sport, un’altra sostanza che non aveva bisogno di follower, di clic, di condividere e taggare. Bastava un abbraccio per raccontare per sempre di un’impresa, per renderla eterna. E allora è bello pensare che proprio nel giorno in cui lo sport a Miami celebra la più imbarazzante delle farse, la foto di Dino Zoff ( altro friulano e non è un caso)  che dopo la vittoria del mondiale dà un bacio a Enzo Bearzot portato in trionfo dai suoi ragazzi  possa seppellire tanta “fuffa”. C’era una volta lo sport degli uomini e c’è oggi quello dei pagliacci. Non sono la stessa cosa, per fortuna…