Paralimpiadi, senza retorica
Con le paralimpiadi si accedono non solo la fiamma olimpica ma (giustamente e fortunatamente) anche i riflettori su uno sport di cui mai si parla. Che è tutto ciò che deve essere lo sport. Sacrifici, forza di volontà, voglia di farcela contro tutti e tutto e contro un destino che ti si è rivoltato contro. Che è il riscatto, la voglia di dimostrare che si può e si deve andare avanti. Alex Zanardi, che di queste paralimpiadi è uno dei simboli, è un traino eccezionale. Racconta sempre che, dopo l’incidente in cui perse le gambe, si risvegliò e cominciò a pensare cosa poteva fare con la parte che gli era rimasta e non con quella che aveva perso. E in un pensiero così c’è tutto il senso che serve. Con le Paralimpiadi le imprese degli atleti hanno giustamente lo spazio che meritano. Sempre di più rispetto al passato. Ed è una conquista innegabile di civiltà, un segno di una cultura dello sport che cresce. Ma mai come in questa manifestazione le gesta di chi scende in pista, nuota o pedala rischiano di pagare un prezzo alla retorica. Forse troppa. Si perchè a volte l’enfasi con cui si sottolinea l’azione di un paratleta ne sottolinea proprio la diversità. Ed è prorpio quello che questi atleti non vorrebbero. Ma soprattutto perchè nelle paralimpiadi il compasso tra chi ha alle spalle una federazione ricca e chi non ce l’ha, tra chi ha gli sponsor e chi non ha la fortuna di trovarli si allarga. Quindi il riscatto costa. In ogni gara, in ogni tempo in ogni medaglia c’è tutta la poesia di ogni storia personale ma c’è anche la freddezza dell ’hi-tech. Lunga vita a chi fa ricerca per aiutare un disabile a “partecipare” ma in nessun altra competizione al mondo, la disponibilità di mezzi economici delle federazioni e l’innovazione tecnologica giocano un ruolo così fondamentale decidendo chi vince e chi perde. Tanto da spingere alcuni a sostenere che i Paesi più poveri in molti sport hanno poche speranze. E la guerra dei ricchi contro i poveri, la solita. La Cambogia, tanto per fare un esempio, è il Paese che ha la concentrazione più alta di persone amputate al mondo e alle paralimpiadi porta pochissimi atleti. E il motivo si intuisce. Per correre servono protesi avveniristiche e costose, servono soldi per comprarle e servono centri di ricerche per permettere di trovare materiali, testarli e poi adattarli agli atleti a seconda delle loro caratteristiche. Thin Sen Hong, sprinter cambogiana in gara quattro anni fa a Londra, aveva un modello base di lame da corsa pagatogli dagli amici e in gara non c’e stata storia nel confronto con altre atlete di federazioni più organizzate. Così ci si può emozionare per la sua tenacia, per la sua voglia di arrivare e partecipare ma la realtà e che sulla pista vincerà chi mezzi più moderni e costosi. Le lame più celebri, quelle con cui correva prima dei guai giudiziari il sudafricano Oscar Pistorius erano fatte con 80 strati di fibra di carbonio e che accumulano energia riutilizzandola nel momento più utile, quando cioè la gamba si stacca dal suolo. Fantascienza. Nelle Paralimpiadi l’innovazione è centrale da sempre, basti pensare alle sedie a rotelle dei primi Giochi tenutesi all’ospedale di Stoke Mandeville nel 1948, che pesavano dieci volte di più di quelle utilizzate al giorno d’oggi. E si può continuare perchè fortunatamente il progresso va avanti e dà la possibilità anche a chi è stato sfortunato di giocarsela e poi magari passati i Giochi diventa un’idea, uno strumento, una protesi che andrà ad aiutare tutti nelle vita di tutti i giorni. Ed è una cosa bellissima. Ma resta il fatto che in gara c’è chi può giocarsela più di altri e chi non può giocarsela proprio perchè il riscatto ha un prezzo a volte troppo salato. E questo va detto senza ipocrisie. Anche perchè ormai le paralimpiadi sono un evento a tutto tondo dove valgono anche le regole del business, dei diritti televisivi e degli sponsor. A Rio sono stati venduti oltre un milione di biglietti per un “tutto esaurito” che segue quello di quattro anni fa a Rio. E meno male che è così. Però anche per questo la retorica non serve più.