Squinzi, il ciclismo s’è “sgonfiato”
Non ci sono squadre italiane alla settantaduesima edizione della Vuelta di Spagna e non ce ne saranno al prossimo Giro d’Italia del centenario. Che è un po’ più grave. Ma ormai va così. Che fine ha fatto il ciclismo italiano? Che fine hanno fatto la nostra storia, i nostri colori, i nostri campioni? C’era una volta il ciclismo eroico. Le salite, la folla, i tornanti dove i tifosi si spingevano e spingevano. Oggi si sprinta su traguardi solitari, su strade deserte, tra tormente di sabbia. Ma il business è lì, quindi lì si va, lì si pedala. E si fa finta che sia la stessa cosa, che ci sia la stessa passione, che non sia successo nulla. Ma così non è. E basta sentire pochi giorni fa la voce di Giorgio Squinzi a “Tutti convocati” su Radio 24 per rendersi conto che il ciclismo quando c’era lui (Squinzi) era forse un’altra cosa: “In Italia il ciclismo si è sgonfiato, perché sono venuti a mancare i grandi sponsor e questo ha avuto un impatto diretto – ha ricordato l’ex presidente di Confindustria– C’è anche un problema di credibilità che viene da lontano perchè il sistema del doping ha tolto credibilità al ciclismo in generale, è un fattore che non va dimenticato. La situazione economica in Italia è quella che è, e quindi è molto più difficile trovare degli sponsor che possano investire somme importanti. Non dimentichiamo che oggi per fare una squadra di primo livello servono dai 20 ai 30 milioni di euro. E non sono cifre irrilevanti…”. Tanto per esser chiari. D’accordo il Sassuolo ma il ciclismo per Giorgio Squinzi, resta il ciclismo. Passione e nostalgia, ricordi e occhi lucidi. Un mese fa, sul palco del teatro Dal Verme dove gli avevano consegnato il premio Brera lo aveva ricordato ancora una volta: “Il calcio e il Sassuolo per noi sono una sfida entusiasmante ma il ciclismo e le pagine che abbiamo scritto in nove anni con la Mapei restano una storia che non si cancella più…” La storia di una squadra che ha vinto tutto ciò che si poteva vincere, che scritto sul pavè del Nord un pezzo del mito di uno sport che da quelle parti è più che una religione, che ha provato a giocar pulito. La squadra di Tony Rominger, Paolo Bettini, Andrea Tafi. La squadra di Franco Ballerini. Ora però quella stagione è finita. Un punto a capo sulle vicende di un mondo che ha preso altre strade, altri palcoscenici, altri traguardi. Un’Italia a pedali che andrebbe difesa. Come fanno i francesi che al Tour guai a toccarle le squadre francesi. Guai a cambiarle strade e arrivi. Guai a dimenticarli riti e tradizioni. I libri di storia, Dumas, Maigret, le note della Marsigliese: tutto sacro. Che non si acquista e non si vende perchè sono secoli di eredità di cui andar fieri e farsi vanto. Altrimenti finisce tutto come sta finendo. Che c’era una volta il ciclismo italiano e non si sa più dove andare a cercarlo…