Quattro bici una storia…
Ci sono tanti modi per scrivere la storia. Anche pedalando. Anche arrampicandosi sui colli del Tour, sulle cime del Giro. C’è chi l’ha scritta vincendo, chi perdendo. C’è chi in bici ha fatto esultare gli italiani, chi li ha divisi, chi li divide ancora oggi. E c’è chi, in bici, l’ha salvata l’Italia. Bartali, Coppi, Binda, Pantani, nomi che agli appassionati di ciclismo ricordano imprese in bianco e nero e dai colori ormai sbiaditi, ma che nessuno può più cancellare. Le loro sono senz’altro tra le biciclette più belle e importanti della storia che quasi per magia, in una tappa che per una volta le vede tutte insieme in gruppo, sono state riunite da diverse collezioni ed esposte per due giorni nei cortili di Rossignoli, lo storico negozio di ciclismo in corso Garibaldi a Milano. Storia nella storia per tante «Biciclette Ritrovate». Dai grandi bicicli dell’Ottocento alle bici dei lavori, il pompiere, l’arrotino, il lattaio. Dalle maglie dei pionieri a quelle dei campioni festeggiate ed esposte per o 70 anni del gruppo Manifattura Valcismon con una mostra e la presentazione con un libro «La stoffa dei campioni» scritto a sei mani da Claudio Gregori, Marco Pastonesi e Attilio Scarpellini alle bici da corsa di Marco Pantani, Fausto Coppi, Gino Bartali, Eddy Merckx, Alfredo Binda. E oltre alle bici a raccontare la storia di un Paese che prima pedalava più per necessita che per passione ci sono foto, quadri, filmati, cimeli. Il ricordo riporta sulle strade di 100 edizioni del Giro d’Italia e su quelle di 90 Mondiali di ciclismo che sono celebrati con quattro bici legate a imprese memorabili: quella di Alfredo Binda, primo campione del mondo della storia nel 1927 in Germania; quella di Bartali che vinse il Giro del 1946, detto il «Giro della rinascita» perché contribuì a unire l’Italia dopo la guerra e inaugurò la grande rivalità con Fausto Coppi; la bici con cui Coppi compì l’impresa nella tappa Cuneo-Pinerolo al Giro del 1949, una fuga solitaria e vincente di 192 km e la bici di Marco Pantani con cui vinse la doppietta Giro e Tour nel 1998. Pezzi di storia, non solo del ciclismo. Bici che sono com’erano, con le ruote di allora, i manubri di allora, i cambi di allora. Un filo di ruggine qua e la, telai pesanti che oggi non si possono neppure immaginare, borracce di metallo, selle di cuoio. Il segno dei chilometri e della storia. Ma che storia. Che può cominciare novant’anni fa quando Alfredo Binda vince il primo Campionato del mondo di ciclismo ad Adenau. E’ la prima volta che si assegna il titolo su strada per professionisti, e il «signore della Montagna» stacca tutti anche sul piano arrivando per primo e da solo dopo 6ore e 37 minuti. Il podio è tutto italiano, perché al secondo posto c’è Costante Girardengo, suo rivale di sempre, e Domenico Piemontesi campione ma non campionissimo con un Lombardia nel Palmares. Da Binda a Bartali. La leggenda vuole che la sua vittoria al Tour del 1948 salvi l’Italia da un guerra civile dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del Pci, il 14 luglio a Roma. Tre colpi di pistola che «Ginettaccio» disinnesca portando in Italia la maglia gialla, dopo che Alcide de Gasperi, allora presidente del consiglio gli telefona per spronarlo: «Una sua vittoria sarebbe importantissma per distrarre in questo momento gli italiani…». E quello succede. Bartali ha 21 minuti di ritardo in classifica dal francese Louison Bobet ma il 15 e il 16 luglio con due vittorie a Briancon e a Aix Les Bains fa il miracolo. La sua Legnano in acciaio e il suo cambio Campagnolo con una moltiplica a 48 denti e quattro pignoni raccontano tutta questa storia. Dalla Legnano di Bartali alla Bianchi di Coppi. Fausto, l’Airone, che vince la Cuneo-Pinerolo con una fuga di 192 chilometri, la più lunga della storia, l’impresa di tutte le imprese, così l’hanno battezzata esperti e tifosi. Una pedalata infinita col Colle della Maddalena, il Col de Vars, l’Izoard, il Monginevro e il Sestriere. Fusto va, leggero e inarrestabile alla conquista della maglia rosa e Gino insegue, secondo a quasi 12 minuti: «Quando oggi vedemmo Bartali che inseguiva con rabbiose pedalate, lordo di fango e con gli angoli della bocca piegati in giù- raccontava magico come sempre Dino Buzzati- rinacque in noi un sentimento mai dimenticato: Ettore era stato ucciso da Achille…». Storia e poesia. Racconti di sfide e di «Pirati» che sempre in sella ad una Bianchi hanno fatto tornare a sognare un Paese che non vinceva un Tour dai Tempi di Felice Gimondi nel 1965. Trentatrè anni dopo tocca a Marco Pantani che nel 1988 ha appena vinto anche il Giro. Trionfa anche a Parigi ed entra nel mito di uno sport con un’impresa da titani, che prima di lui solo Coppi, Anquetil, Merckx, Hinault, Roche e Indurain avevano saputo fare. Il Pirata infiamma un Paese che forse non era più abituato a soprendersi per un ciclista. Tifo da stadio, come per un mondiale di calcio, come per Zoff e compagni. Marco sulla sua bici celeste che diventa poi anche rosa e gialla scrive un romanzo d’avventura che legge tutto il Paese. Quattro storie quattro bici, che ora se ne stanno lì nello stesso gruppo per un paio di giorni. Ferme, immobili ma in realtà ancora pronte a scattare. Per raccontare cosa è cambiato e tutto quello che invece resterà. E che il ciclismo conserva.