539e0917f5d284947a006bd09e2637f02ba8aa31Accanto alla sua bici. Lo hanno trovato esanime sulla provinciale 15 che da Bormida porta al Colle del Melogno. Ed  era scritto sicuramente da qualche parte che i giorni di Luciano Berruti,  savonese, 74 anni, simbolo del ciclismo eroico, sarebbero dovuti finire così. E’ forse la fine che aveva sognato, ammesso e concesso che una fine si possa sognare. Però ci si pensa. Ed allora, se ci si pensa, sicuramente  avrà pensato e ripensato che quando proprio sarebbe dovuta finire quello era il modo migliore. Morire in bici: pare una disgrazia. Per Berruti però forse non lo è anche se, come capita quando capita,  nella cronaca finiscono il dolore e le lacrime della moglie  Sofia e dei figli, Leszec e Jacek, di chi gli stava vicino, dei suoi tanti amici, degli “eroi” con cui ha vissuto e condiviso la stagione di un ciclismo che sembrava vintage ma che in realtà e più moderno che mai. Era diventato il simbolo del ciclismo eroico. Sulla sua “Numero uno”, uguale a quella con cui Petit Breton vinse il Tour negli anni 1907 e 1908,   ha macinato chilometri in ogni continente. Lo chiamavano “eroico” perché  così si chiamano tra di loro tutti i pirati dell’ ’Eroica” di Gaiole in Chianti,  che è la stessa cosa che dire amici ma  un po’ di più,  perchè gli “eroici” condividono una passione che va al di là di selle, pedali, mozzi, sterrate, ribollite e calici di  Chianti. La passione eroica è uno stile di vita, un frullato di valori di sport e di amicizia che si rafforzano di gara in gara, di salita in salita, di foratura in foratura. Ci finisci dentro e  te ne rendi conto. Solo così capisci. Capisci che la gara che scava alle radici più autentiche del ciclismo ha fatto emergere nel 1998 lo spirito vintage di Luciano “Lucky” Berruti che di quella sfida è diventato un simbolo, uno dei tanti simboli. Sicuramente una foto sulla home page con quei suoi perfetti abbigliamenti d’epoca, con quel suo modo di essere e di esserci. Anche per questo lo chiamavano “eroico” ma  più perchè era eroico dentro, nell’animo, nella visione di un ciclismo che ha storia,  sentimenti e un valore assoluto che pedalata dopo pedalata  ha contribuito a conservare.  Fin da giovane quando aveva cominciato a collezionare e restaurare bici e materiale d’epoca, a smontarle e rimontarle per farle rivivere. Una passione vera che aveva fatto breccia nell’ amministrazione comunale di Cosseria e in quella regionale, tanto da permettergli di aprire nel 2010  un ricco museo dedicato alla bici. Pezzo per pezzo un secolo di ciclismo raccolto nell’ex scuola elementare, dalla cyclette su cui la principessa Sissi d’Austria si teneva in forma, al biciclo, alla bicicletta dell’ex commissario tecnico Stefano Ballerini, alle magliette che i grandi campioni, da Moser a Bartali, gli hanno donato. Una storia tutta da raccontare. Cominciata con quella Peugeot del 1907 che gli aveva fatto scoprire un mondo: «Quella bici l’avevo trovata nel deposito di Camillo, lo zingaro del paese che raccoglieva rottami – aveva raccontato tempo fa a un giornalista al Secolo XIX – L’ho presa anche se era senza manubrio, l’ho aggiustata e mi sono iscritto a una cronoscalata. Gli organizzatori pensavano che volessi prendere in giro gli altri concorrenti. In realtà volevo solo dimostrare che sono gli uomini a fare la differenza, non le biciclette e, oggi, tanto meno il doping». Così la pensava. Così continuerà a pensarla…