Varsavia_Marathon_2017_rmVedere le immagini e il dramma della maratoneta keniana Recho Kosgei, che  domenica scorsa a 800 metri dall’arrivo della maratona di Varsavia viene colpita da una fortissima crisi che la fa crollare a terra “disarticolata” fa un certo effetto. Non è la prima e non sarà l’ultima. E’ un vecchio dibattito: in una maratona, in una granfondo, durante un ironman mollare si può? A volte si deve. Certo, poi uno pensa a Dorando Pietri che arriva al traguardo barcollando, cadendo e rialzandosi e scrive la storia del’atletica e qualche dubbio gli viene. Oppure pensa a John Stephen Akhwari,  il tanzaniano che chiude la maratona olimpica a Città del Messico nel 68 all’ultimo posto con un ginocchio rotto e a chi gli chiede perchè non si è ritirato risponde senza indugio: “Perchè il mio Paese non se lo merita, non mi ha mandato qui a 5mila chilometri per ritirarmi…”. Storie, anzi storia. Figure leggendarie che con la loro perseveranza con la loro tenacia hanno difeso il valore dello sport e scritto pagine che infatti sono rimaste. Due esempi e ce ne sono tanti altri, un elenco lunghissimo. Ma vale per tutti? Vale sempre. Vale anche quando il traguardo non è un’olimpiade, un mondiale, una corsa tra professionisti? Vale anche per tutti quei “tapascioni” che ogni domenica mattina invadono le strade del mondo rincorrendo la propria sfida?  Che sia un mondiale, un’ olimpiade, la coppa della Brianza il valore che ognuno dà alla propria impresa credo sia lo stesso. Ma quando un atleta, magari un po’ avanti negli anni, fa sport per il proprio benessere, per il proprio agonismo o semplicemente per il proprio piacere il discorso cambia. Non basta più fare una mezza, una maratona, una granfondo, un triathlon o un ironman. E importante anche il come. Diverso è fare una maratona in tre ore e mezzo che in sei;  diverso concludere un ironman in 12 ore che in 16 o di più; diverso arrivare al traguardo correndo ( anche piano) che non trascinandosi, barcollando, non lucidi. E’ un po’ come con le torte fatte in casa: non basta metterle in tavola comunque sia, è importante che siano buone, mangiabili, che diano gusto. Chiaro che la fatica al traguardo c’è per tutti ed  è il segno che si è dato tutto, che ha vinto la volontà, che si è arrivati in fondo nonostante tutto. Missione compiuta insomma. Ma è c’è un limite oltre il quale la fatica, lo stremo diventano l’inutile ostentazione di una stoicità pericolosa. Il dibattito tra chi  sostiene che non si debba mollare mai, che anche sui gomiti l’importante sia arrivare e quelli che invece fissano un limite alla dignità del gesto atletico e alla sofferenza oltre il quale lo sport diventa un’ostinazione patetica non finirà mai. Ma non è detto che ci voglia più coraggio a trascinarsi oltre il limite che a “mollare”, ad ammettere la sconfitta che non è un disonore. Eroi sono è anche coloro che sanno riconoscere il proprio limite anche perchè la ubris, il peccato di presunzione, per gli Dei è l’offesa peggiore.. Poi si vendicano…