petaAlessandro Petacchi è stato inibito fino al 14 maggio 2021 dall’Uci. Lo ha annunciato la stessa Unione ciclistica internazionale con una nota pubblicata sul proprio sito ufficiale. Il 45enne spezino, ritiratosi ormai da 4 anni, avrebbe  violato le regole antidoping nel periodo compreso fra il 2012 e il 2013, quando correva per la Lampre e per l’Omega Pharma-Quick Step. Come altri colleghi, era stato coinvolto nell’operazione “Aderlass” ed era stato sospeso:  ora le informazioni provenienti dall’Austria, raccolte e analizzate dall’associazione, hanno portato alla squalifica sino al 14 maggio 2021 per «uso di metodi-sostanze vietati». Il ciclista spezzino ha sempre rigettato le accuse, dichiarando nel maggio scorso che «non ho mai fatto una trasfusione di sangue, non ho idea del perché il mio nome appaia nel dossier dell’Uci». Ma forse poco importa. Poco importa perchè viene naturale chiedersi a cosa serva indagare, accertare e alla fine squalificare un atleta che ormai non gareggia più da anni se non, come è successo con la Rai, a fargli perdere un contratto di lavoro.  E allora vine da pensare che in un mondo dove sempre più si twitta e si condivide valgano ancora i proverbi come quello che spiegava (e spiega) che “si chiudono sempre le stalle quando i buoi sono scappati”. E così funziona l’antidoping da noi e non solo da noi. Si fa sempre tutto dopo. S’indaga dopo, si interrogano i testimoni dopo,  si condanna dopo e ci si indigna dopo.  Che senso ha? E’ l’ipocrisia dell’antidoping che pretende di sconfiggere il doping indagando a ritroso. Che s’illude così di arginare un fenomeno che fa parte dello sport “hic et nunc” e ora e adesso bisognerebbe cercare di scovarlo investendo energie e denari. Pescare qualche bel nome del passato e infilarlo in un’inchiesta serve solo a far sì che quell’inchiesta finisca in vetrina e se ne parli. Serve solo a far sapere al mondo che qualcuno indaga e che qualcun esiste. Ma in realtà non serve quasi a niente…