C’è un Giro che si è corso prima, quando si sarebbe dovuto correre, raccontato da chi Senza Giro proprio non ci voleva stare. Un Giro all’antica, fatto di racconti, di cronache e illustrazioni come una volta quando non c’era la tv ma neanche la radio. Un Giro inventato, una lunga volata  nata dall’idea di Paolo Bozzuto che aveva messo insieme giornalisti, scrittori, disegnatori e attori per come se tutto fosse normale, come se non si fosse mai smesso di pedalare. Un gioco, che era servito a lenire la malinconia di tanti appassionati e ha contribuito con una raccolta fondi (destinata all’onlus Namaste’) ad aiutare chi si sta impegnando nella lotta per l’emergenza. A me era toccato raccontare la decima tappa quella che si corre domani da San Salvo a Tortoreto Lido. Chissà se vale ancora rileggerla come pronostico…

 

 

Tortoreto Lido, 19 maggio 2020
dal nostro inviato Antonio Ruzzo
illustrazione di Lucio Schiavon

«Tra le nuvole e il mare si può fare e rifare
e con un po’ di fortuna si può dimenticare.
E di nuovo la vita sembra fatta per te.
E comincia domani…»

Anni fa, quando l’Aquila provava a riaprire le ali con una canzone cantata da gli “Artisti per l’Abruzzo”, un coro di fuoriclasse per lenire le ferite del terremoto. Quando negli alberghi del lungomare non ci si veniva col cuore leggero di chi va in vacanza ma sfollati da case sgarrupate, in fuga da montagne che non ne volevano proprio sapere di star ferme. Pietra dopo pietra le mani forti di questa gente hanno  rimesso insieme i cocci delle macere.  Hanno rimesso in sella una terra che è tornata a pedalare. E oggi ha voglia di far festa.

Se lo aspetta il suo eroe: GIULIO SEI IL CUORE D’ABRUZZO, c’è scritto su un cartello enorme che penzola dal balcone dell’Hotel Ambassador nel bel mezzo del lungomare di Tortoreto. Ci credono tutti qui, anche le tortore che danno il nome a questa città e adesso volano alte sopra lo striscione del traguardo dopo aver inseguito i corridori giù in picchiata negli ultimi chilometri dal borgo antico dove stanno di casa da secoli.

E ci crede anche Ciccone, che fa rima con Vito Taccone, gloria nazionale da queste parti, che gli ha passato il testimone e un’eredità pesante come il Grande Sasso. Queste strade, l’abruzzese della Trek, le conosce a memoria ma oggi non basta. Succede tutto all’improvviso quando, nella scia del belga Thomas de Gendt, Ciccone fila via. Non può e non deve. Ma è un attimo. Un fulmine che manda in cortocircuito ammiraglia, equilibri e gerarchie di una squadra che comanda il Giro con Vincenzo Nibali là davanti a 26’’ dal suo scudiero.

Ma Thomas e Giulio si guardano e si intendono. Stessa pasta, stesso modo un po’ romantico di intendere un ciclismo dove comanda la passione, dove  il coraggio è quello di provarci sempre, di non aver paura, di far finta di non sentire il gracchiare delle radioline. Dove il  “mestiere” non ti annichilisce in una dorata routine e dove il tempo non è solo quello del crono e delle classifiche ma quello che rincorri pedalando per migliaia di chilometri tornando a casa dopo una corsa con un tuo amico. E allora testa bassa e pedalare, senza farsi troppe domande, che funziona sempre. Quasi sempre. Che è una regola non scritta per far saltare il piatto, che fa in fretta a diventare un patto magari scellerato, un’alleanza, un’avventura folle da vivere tutta di un fiato senza respirare. Chilometri che filano via,  veloci e regolari, perché è un attimo buttar via tutto. Basta fermarsi a pensare, basta un’incomprensione, un dubbio, un’indecisione e si ritorna nella pancia di un gruppo che rincorre a una manciata di secondi e ha la bocca spalancata come la balena di Pinocchio.

E allora Giulio e Thomas, Thomas e Giulio, ancora Giulio e Thomas e ancora Thomas e Giulio.  Coppia perfetta, più amici che rivali, senza pensare al traguardo che arriverà. Ci sarà tempo per fare i conti ma non è adesso.

Però purtroppo il tempo arriva. Gli sguardi si incrociano di nuovo, grazie di tutto: «È l’ora, buona fortuna…».  Thomas dà una stratta agli scarpini e  poi stringe forte i pugni sul manubrio. Giulio fa lo stesso e insieme con lui sembrano farlo le migliaia di abruzzesi che stanno sulle transenne di viale Marconi.

La banda di fisarmoniche che sta ai piedi del palco smette per un attimo di suonare, qualcuno incrocia le dita, qualcun altro si raccomanda a San Nicola che da queste parti è un’autorità anche se la sua basilica è qualche chilometro più in là.

È una volata che non finisce più con il gruppo che riappare e sembra mangiarseli. Trecento metri spalla a spalla, a toccarsi di gomito, a sfiorarsi con i muscoli che si irrigidiscono allungandosi il più avanti possibile sperando che un colpo di reni basti a garantirsi la gloria, a guadagnare quel mezzo millimetro che servirebbe a chiudere il cerchio.

Ciccone va. Sull’Etna, pochi giorni fa, gli era andata bene. Era arrivato da solo sul vulcano che gli aveva ricordato  il Mortirolo. Qui non basta. Mezzo millimetro in meno, misurato con una foto che farebbe volentieri a brandelli perché, è vero che nel ciclismo non perde mai nessuno, ma qui lui voleva vincere e basta. Che poi ti arrovelli e non ci dormi la notte al pensiero che dopo 212 km e dopo aver scalato 3000 m di dislivello tutto possa decidersi in un soffio, nello scatto di una reflex che ferma due ruote che passano su una striscia banca praticamente nello stesso istante. E il resto non conta più nulla. Non vale. Tutto inutile. Inutile aver lasciato l’anima sulle rampe di Tricalle salendo a Chieti verso casa, inutile aver rischiato l’osso del collo nella discesa di Colonnetta, inutili le “menate” a sfidare il maestrale sul litorale da Silvi a Pineto fino a Giulianova. Tutto assolutamente inutile.

Inutili anche quei tre giri su e giù dalla marina di Tortoreto fino al Borgo vecchio con una rampa che non finisce mai, che ti toglie il fiato fino a farti venire la nausea, che ti fa esplodere i muscoli. Che, quando la fai a tutta, sembra una via dritta verso l’inferno e che, d’estate, è invece un dolce salire per i turisti a caccia di qualche foto da scattare con l’Adriatico che sta laggiù o di qualche locale buono per gli arrosticini o per il brodetto. Che poi non serve. Perché qui ovunque vai, ovunque ti siedi, ovunque capiti trovi  chi ti accoglie senza troppa “ammuina” e ti senti a casa. È la magia di una terra e di gente cortese che oggi aspettava il Giro ma soprattutto aspettava il suo eroe. Giulio a mezzo millimetro da Thomas, fino all’ultimo respiro che però è quello che conta.

Pazienza. Cambia poco o nulla anche per tutti gli altri che arrivano un istante dopo senza più voglia di far volate e senza scambiasri le maglie. Resta tutto com’è, come in quella canzone, «sulla scia della nave dopo il temporale».

Ma non c’è nessun arcobaleno all’orizzonte: Vincenzo è nero come la pece…