Superlega: non hanno vinto i tifosi, ha vinto la politica
La Superlega è un porcheria. E sono (siamo) più o meno tutti d’accordo. Sono d’accordo tifosi del Chelsea, quelli del Liverpool che sono scesi in piazza senza pensarci un attimo, sono d’accordo Gary Neville, Jurgen Klopp, Pep Guardiola tanto per citare qualcuno. D’accordo anche Roberto De Zerbi che da Sassuolo ha parlato di un colpo di Stato e sono d’accordo anche tutti quelli che in queste 48ore di rivoluzione partorita e abortita ci hanno raccontato con tutta la retorica possibile quanto il calcio sia romantico, inclusivo e terreno di riscatto per chi non nasce predestinato o in una classe sociale fortunata. Tutto vero. Ma la storia di una delle più grandi figuracce imprenditoriali che la storia del football ricordi, un misto tra approssimazione, arroganza, presunzione e pressapochismo è un’altra. Sarebbe bello che a far retrocedere frettolosamente i club che in molti hanno chiamato “la sporca dozzina” fossero stati l’amore e la passione dei tifosi, perchè il calcio è loro e hanno avuto il coraggio di difenderlo. Non è così. Il calcio purtroppo non è più loro da un bel pezzo, sparito e spartito tra istituzioni voraci e club che fanno parte di un gioco miliardario gonfiato all’impossibile e che la pandemia ha fatto esplodere. Contratti milionari, debiti, pretese di crediti infiniti, logiche imprenditoriali quasi sempre assenti, compromessi proposti e accettati pur di raccattare fondi che hanno portato il pallone dove non ha storia e dove non sarebbe neppure dovuto andare ad esempio a giocarsi i mondiali in Quatar. Il baraccone tenuto in piedi da dalla Uefa che ora ci propone una riforma della Champion con una pletora di squadre che daranno vita a gironi inutili e inifiniti è pessimo e la Superlega probabilmente sarebbe stata la classica toppa peggiore del buco. Ma a farla naufragare in un amen non è stata la sacrosanta indignazione di chi crede ancora che il calcio sia uno sport dove si gioca, si vince o si perde e alla fine si mettono in bacheca i trofei. Il calcio è potere e il potere se lo tiene stretto a cominciare da Uefa e Fifa che gestiscono i denari per arrivare ai governi che sul calcio spesso costruiscono il consenso. E non solo. Così Boris Johnson quando la notte scorsa ha annusato l’aria ci ha messo un secondo a convocare i vertici della Premier per spiegar loro che non se ne faceva nulla. Punto. La Premier League è un marchio ricchissimo e fondamentale della sua “Global Britain” del post Brexit che senza Liverpool, City, United, Chelsea, Arsenal e Tottenham sarebbe risultata dissanguata, morta, inutile. Quindi il governo inglese ha spiegato a “lorsignori” che avrebbero dovuto lasciar perdere con le buone oppure con le cattive e cioè con la minaccia di rendere la vita dura ai magnati stranieri con ogni mezzo in particolare con una stangata fiscale e con la revisione delle regole sui diritti tv, con leggi protezionistiche, con l’adozione di quella norma, già operativa in Germania, che impone ai club di cedere il 51% delle quote ai tifosi e negando per le prossime stagioni i visti d’ingresso in Gran Bretagna ai nuovi acquisti stranieri. Non chiacchiere. Da lì a ripensarci è stato un attimo. E ora riprendiamo pure a fare la ola…