Con le paralimpiadi non si è accesa solo la fiamma olimpica ma (fortunatamente) anche i riflettori su uno sport di cui si fa sempre un po’ fatica a parlare nonostante sia tutto ciò che deve essere lo sport. Sacrifici, volontà, voglia di farcela contro tutti e tutto e contro un destino che ti si è rivoltato contro. Oltre 4.440 atleti, più di 4 miliardi di telespettatori e 160 Paesi collegati, prime pagine dei giornali e ore e ore di diretta Rai (a cui va un applauso enorme perché è proprio questo il senso del servizio pubblico) non bastano però a fare dei Giochi Paralimpici di Tokyo un evento globale. Perché è un fatto che i Giochi non siano per tutti. Nella storia di questo evento ai primi dieci posti del medagliere di sempre, ad eccezione della Cina, ci sono solo potenze occidentali: dagli Stati uniti all’Australia, dal Canada alla Germania, a Gran Bretagna e Francia. È normale sia così. Potere economico e potere sportivo vanno sempre di pari passo ma nello sport paralimpico la forbice è più ampia. Un esempio: la Cambogia è il Paese che ha la concentrazione più alta di persone amputate al mondo e alle paralimpiadi porta pochissimi atleti. E il motivo si intuisce. Per correre servono protesi avveniristiche e costose, centri di ricerca per permettere di trovare materiali, testarli e poi adattarli agli atleti. Servono strutture e investimenti. La distanza tra chi ha alle spalle una federazione ricca e chi non ce l’ha, tra chi ha sponsor e chi non ha la fortuna di trovarli è enorme. Quindi il riscatto ha un prezzo. In ogni gara e in ogni medaglia c’è tutta la poesia di una storia personale ma c’è anche la freddezza dell’ hi-tech. Lunga vita a chi fa ricerca per aiutare un disabile a «partecipare» ma in nessun altra competizione mezzi economici e innovazione tecnologica giocano un ruolo così fondamentale. In Italia il maggior numero di medaglie è arrivato dal nuoto dove protesi e tecnologie sono meno decisive. Vale ciò che dice Luca Pancalli, illuminato presidente del Comitato paralimpico: «La gioia è tanta per i successi ma ci sono ancora troppe famiglie con figli disabili che non hanno accesso allo sport. Ci sono un milione di ragazzi disabili da intercettare. Serve tenere accesi i riflettori sui percorsi di politica sportiva e sociale in modo che tra tot anni la nostra delegazione non sarà di 113 atleti ma magari di 300».