Bici come motorini: a Milano mobilità “amara”
In bici faccio più o meno ottomila chilometri ogni anno. Caldo, freddo, sole, pioggia: pedalo appena posso e quando non pedalo un po’ soffro. Anzi parecchio. Ciò detto non per vanto ma per togliere ogni dubbio sul fatto che possa avercela con i ciclisti. Però a Milano i ciclisti e le bici (alcuni ciclisti e alcune bici) stanno diventando un problema ed è bene che il sindaco (lui pure ciclista) e i suoi collaboratori se ne rendano conto in fretta se non si vuole trasformare la mobilità «dolce» in mobilità «amara». In questi anni in tanti<CJ1> hanno iniziato a pedalare un po’ per la paura di contagiarsi sui mezzi pubblici e un po’ per una politica che ha moltiplicato le ciclabili. Ma il modo di andare in bici è cambiato grazie al boom di quelle a pedalata assistita (quelle «elettriche» tanto per capirsi) che hanno messo in sella tantissime persone che prima non ci pensavano proprio. E non solo per divertirsi in una gita fuori porta. Ogni giorno molti pedalano nel traffico perché con la bici lavorano. Sono i «riders», i più esposti al pericolo perché per consegnare merci e cibo in genere si va di fretta e soprattutto perché pedalano spesso in assenza di regole. Un esempio? Negli ultimi tempi la maggior parte di loro utilizza le cosiddette «fat bike», cioè quelle bici elettriche con le ruote grosse nate per muoversi sulla neve o sulla sabbia. <CW-4>Sono in tutto e per tutto motorini ma non avendo targa ovviamente non sono soggette a controlli e limitazioni. Chi pedala su questi mezzi va ovunque, anche dove non si può: sui marciapiedi, contromano, nelle corsie riservate. Una anarchia totale e pericolosa per chi pedala, che rischia la pelle, ma anche per chi non pedala perché è un attimo investire un pedone e perché gli incidenti sono sempre una bella «grana», anche per la coscienza. Un situazione degenerata, una mobilità fuori controllo, un bel caos insomma. Sarebbe quindi un passo avanti se Regione, Comune, Ministeri insomma chi ne ha il potere, cominciasse con l’imporre alle bici «commerciali» la targa, un numero, un’etichetta, insomma qualcosa che le rendesse riconoscibili e rintracciabili in caso di infrazioni. E ancora cominciasse a rendere responsabile in solido dei comportamenti sulla strada i datori di lavoro. E infine cominciasse a normare seriamente un settore dove chi lavora è spesso costretto a rischiare la pelle per una manciata di lenticchie.