Nel giorno in cui Tadej Pogacar prende dalle mani di un immenso Wout Van Aert la maglia gialla e spiega una volta per tutte che la differenza che rende grande il Tour e un po’ più piccolo (un bel po’ più piccolo) il Giro la fanno campioni come loro, Giuseppe Saronni viene nominato ambasciatore di Milano nel mondo. Pogacar alla Uae un lustro fa l’aveva portato lui, grazie ad una “dritta” di Andrej Hauptmann, ex corridore Lampre e amico suo  che gli aveva segnalato quell’adolescente terribile con il motore di una fuoriserie. C’aveva visto lungo e non è mai un caso. Non è mai un caso quando c’è di mezzo Saronni che pedalava e pensava veloce quando correva e continua a farlo adesso, come se avesse trovato il modo di fermare il tempo. E allora con la cantante e oggi manager musicale Caterina Caselli e l’attore e regista Antonio Albanese  Milano gli rende gloria: rappresenterà  la città nel mondo per tutto quest’anno. Un incarico di prestigio che gli è stato conferito dal Centro Studi Grande Milano e dalla Fondazione Stelline che dal 2017 nomina donne e uomini del fare che hanno avuto un obiettivo importante da raggiungere e che si sono mostrati capaci di superare il limite, di andare oltre nella vita e nella professione, nell’agire e nel lavoro, divenendo esempio e quindi modello da imitare. Da Carla Fracci  a Fedele Confalonieri, da Marco Tronchetti Provera e Javier Zanetti è in buona compagnia ma Saronni fa storia a sè. Per chi ama lo sport l’anno è il 1982. Sono due i ricordi indelebili: Enzo Bearzot che viene lanciato in aria dai suoi ragazzi al Bernabeu con al coppa del mondo tra le mani e Beppe Saronni campione iridato a Goodwood in Inghilterra con una volata formidabile che risucchia  l’americano  Jonathan Boyer e rende vana la resistenza dell’altro “yankee” Greg Lemond. Mai vista (e mai più si vedrà) una cosa simile. “Un sasso lanciato con una fionda…” scrisse qualcuno ma quello sprint venne consegnato alla storia come la “Fucilata di Goodwood”. Altro venne ed altro verrà perchè Giuseppe Saronni per tutti “Beppe” belle pagine di ciclismo ne ha scritte anche quando ha smesso di pedalare. Da talent scout, da manager capace da reggere botta ai grandi gruppi che oggi dettano legge, da opinionista mai banale. Un piacere intervistarlo. Pochi mesi fa proprio sulle pagine del Giornale faceva il punto sullo stato di salute del ciclismo azzurro: “Facciamo finta di niente da troppo tempo, e ci nascondiamo dietro alla Roubaix di Colbrelli. Il ciclismo italiano lo vedo malissimo. Guardi le corse e ti chiedi: dove sono gli italiani? Non siamo più protagonisti e soprattutto non ci sono italiani che corrono. Non ci sono più i numeri, e sarà sempre peggio”.  Così, senza ipocrisia e senza tanti giri di parole. Lui può permetterselo ed ora anche un po’ di più:  “ambasciator non porta pena…”