Da Como a Vienna: così nacque il cicloturismo
Renzo Monti pedalava su una bici da venti chili. Anche qualcuno in più. Tubi pesanti, bacchette, raggi, parafanghi, fanali, selle di cuoio e un trionfo di ferro e di lamiere. Ma il gesto era lo stesso, quello si sempre, quello di oggi. Salire in sella, raccomandarsi al cuore e ai muscoli e liberare la mente. Funziona sempre così. Perché la bici muove l’anima. Viaggi e passione, avventure da vivere e raccontare. Un secolo fa sulla strada di Chiavenna per Colico il viaggio era da Como a Vienna, sfida di un pioniere del cicloturismo che oggi è diventato un business. Un cappello da alpino, baffi, pantaloni alla zuava, stivali e gilet a proteggere una camicia bianca sbottonata sui polsi e via per la prima «gita ciclo-alpina-ferroviaria» dall’Italia a Monaco di Baviera, lungo il Danubio fino a Passau, per i viali di Vienna e poi di nuovo a Colico sulla via del ritorno. Chilometri e chilometri, con una sacca a tracolla, con i portapacchi stracarichi, con le borse legate sui manubri, fotografati, raccontati, annotati su agende di viaggio che oggi sono patrimonio del Touring Club Italiano di cui il cavalier, ragionier Monti era socio «della prima ora». Amore per la bici e per la strada. Foto in bianco e nero che oggi sono diventate digitali, grane grosse e fini trasformate nei pixel di una passione che non si spegne, che trasforma ogni viaggio nell’avventura di sempre. E la magia del viaggiare a rilento, adagio. Di poter scegliere le strade secondarie, quei rami secchi che la velocità dei giorni nostri ha deciso che non servono più, che su navigatori degli smartphone non sono consigliate. Anzi sono assolutamente sconsigliate. Perché ci si mette troppo tempo, perché si allunga, perché la deviazione è esagerata e non economica. E il bello sta proprio lì. Puntare sulle vie più lunghe, sulle alternative più improbabili, andarsi a cercare qualche imprevisto. Anche qualche guaio perché bici aiuta a sporcarsi le mani di grasso, a sudare, a capire che la fatica è un premio quando c’è una salita, un passo da conquistare. Aiutava quella pesante del cavalier Monti quando i copertoni di scorta si incrociavano sulle spalle, aiutano quelle veloci e leggere di oggi con le gomme che si riparano con i gel. Da Como a Vienna, ma anche da Norcia a Spoleto su un vecchia ferrovia dismessa, nelle Fiandre, nel sud del mondo o verso i mari del Nord si pedala e ci si avventura dove i motori non osano. Sulle strade, sulle carrettiere, sugli sterrati che sono la spina dorsale dei paesi, i capillari dei territori che conservano le tradizioni, i colori, gli odori e i sapori di mondo che non condivide e non si connette. Resiste. Che custodisce le facce e le mani rugose della gente che si alza all’alba e si corica al tramonto, che sa di caglio, che del maiale non butta nulla, che col lardo ci fa anche il sapone, che è l’esempio di come una volta le economie domestiche erano cicli virtuosi perfetti. «Smart» come si dice oggi. Con la bici il cavalier Monti nel 1907 attraversava quei mondi lì, ne metteva qualche pezzettino nella sua bisaccia e se li riportava a casa. E oggi da qualche parte ancora si può fare. C’erano una volta le bici da venti chili, c’erano Coppi e Bartali, c’erano gli eroi caduti, quelli un po’ maledetti, e c’erano i viaggiatori sognanti e visionari sempre pronti a partire. E per fortuna ci sono ancora…