E’ stata la prima italiana a vincere un mondiale di ciclismo sedici anni fa a San Sebastian. Ma non ha vinto solo quello perché, Alessandra Cappellotto, 54 anni, vicentina di Sarcedo, in bici ha scritto un bel pezzo di storia azzurra con altri due bronzi mondiali, un paio di titoli italiani e due partecipazioni olimpiche ad Atlanta e Sydney. Poi dalla bici è scesa, nel senso che ha smesso di gareggiare, ma ha cominciato a scriverne un’altra di storia, sempre di valore e forse anche di più, «pedalando» in aiuto di altre donne, in altri Paesi, in difficoltà.

 

Da dove si comincia?
«Sette anni fa ho fondato la sezione femminile della Cpa, l’Organizzazione mondiale dei corridori professionisti e sono entrata in contatto con molte atlete di Paesi in via di sviluppo. Ma mi sono resa conto subito però che non potevo occuparmi solo delle professioniste perché c’erano tante altre donne che avevano bisogno…».
Di cosa?
«Non servivano solo caschi da bici e scarpe per pedalare ma anche istruzione, corsi professionali. Così ho pensato servisse un’associazione che attraverso il ciclismo promuovesse l’emancipazione della figura femminile nei Paesi in via di sviluppo e in tutti quei luoghi del mondo in cui le donne non godono di diritti basilari e ho fondato Road to equality».
Da dove siete partiti?
«Dal Ruanda alla Costa d’Avorio, dal Sudamerica alla Nigeria, fino in Afghanistan…».
E a Kabul che succede?
«L’8 marzo di due anni fa mi contatta il presidente della Federazione afghana per chiedermi un aiuto ad organizzare lì la prima corsa di ciclismo femminile. Accetto all’istante, anche perché credo che quello sia il modo migliore di festeggiare le donne in quel Paese, per promuovere il ciclismo in un luogo, diciamo così, non canonico. Al via si presentano 56 atlete ed è quasi una rivoluzione, un lampo di luce».
Che però si spegne in fretta.
«Purtroppo sì. Pochi mesi dopo le notizie dell’invasione talebana cominciano a rimbalzare dai telegiornali. All’inizio tutto sembra abbastanza sotto controllo, il presidente federale che chiamo sempre più spesso mi rassicura poi però la situazione precipita e in città inizia la “caccia” proprio a quelle cicliste che “avevano osato pedalare”. Un incubo».
E lei cosa fa?
«Mi attacco al telefono e al computer, in pratica mi chiudo in casa per 15 giorni cercando il modo di portarle via di là. Contatto tutti quelli che conosco e che possono darmi una mano. L’allora presidente della Fci Renato di Rocco mi mette subito in contatto con la Farnesina, con la segreteria del ministro Luigi Di Maio e con lo Stato Maggiore del nostro Esercito. Tutti fantastici…».
Come finisce?
«Finisce che 14 di quelle ragazze riescono quasi per miracolo a salire su un C 130 della nostra Aeronautica e arrivano sane e salve nel centro di accoglienza di Avezzano. Ne aspettavo in realtà sedici ma di due purtroppo si sono perse le tracce…».
Ora?
«Ora sono qui da noi. Hanno, chi meglio e chi peggio imparato l’italiano, e grazie all’aiuto di tutti nella nostra regione lavorano tutte tranne una che si è iscritta all’università. Sono serene e io sono felice e orgogliosa di loro…».
E la bici?
«Pedalano ancora tutte, una è entrata addirittura in una squadra World Tour. Poco tempo fa l’Uci, l’Unione ciclistica internazionale, ha organizzato in Svizzera i campionati nazionali afghani con atlete fuggite da Kabul e arrivate anche da altri Paesi dove hanno trovato accoglienza. Le “mie”? Sono arrivate prima, seconda, terza, quarta e quinta…».
Torneranno in Afghanistan?
«La più grande di loro ha 22 anni. Mi ha fatto vedere la foto della sua migliore amica che a Kabul giocava a calcio. L’hanno uccisa…».