In bici sul Po fino al mare: “Nostro fiume più caro…”
“Nostro fiume più grande, più lungo, più bello, più caro…”. Ormai quasi settant’anni fa Mario Soldati nel suo viaggio televisivo per la Rai raccontò la magia del Po. La sua gente, la sua storia, le tradizioni, il lavoro e il cibo. Un legame intimo e intenso tra uomo e natura, un’amicizia stretta prima che l’industrializzazione tracciasse un solco insuperabile e il fiume diventasse un nemico da cui difendersi. Il Po è lì, apparentemente mansueto, e dall’altra parte scorre un mondo di campagne, di coltivazioni, di piccoli paesi, di strade, di case, di giardini curati, di piccole piscine, di auto posteggiate… A dividerli, dopo alluvioni che hanno lasciato il segno, ora c’è un argine, che il tempo e la paura hanno fatto diventare sempre più alto.
È una lunga via che da Pavia a Piacenza, da Cremona a Ferrara, punta verso il mare attraversando tre regioni, attraversando mondi e storie che sembrano immagini e sequenze di un film neorealista, attraversando una Bassa dove il tempo pare essersi fermato, dove ogni piazza, ogni campanile ogni circolo ricorda le liti e i dispetti tra Peppone e Don Camillo: «Per me il Po comincia a Piacenza – scriveva Giovanni Guareschi -. Il fatto che da Piacenza in su sia sempre lo stesso fiume, non significa niente: anche la via Emilia, da Piacenza a Milano, è in fondo la stessa strada; però la via Emilia è quella che va da Piacenza a Rimini. Non si può fare un paragone tra un fiume e una strada perché le strade appartengono alla storia e i fiumi alla geografia…».
Storia e geografia che si uniscono in una pedalata in mezzo alle «acque», su piste che vanno verso l’infinito, interrotte qua e là solo dal volo di una folaga o di un gabbiano che giunge ad ali spiegate dalle vicine coste adriatiche. Si va verso il Delta attraversando un bacino di quattrocento chilometri quadrati e solcato dai cinque rami fluviali principali che si intrecciano con il Mincio, con l’Oglio, con altri fiumi ancora e altri mille canali che qui la fanno da padrone, condizionando il clima, le coltivazioni, la vegetazione, la sopravvivenza degli animali, piogge e siccità. Si pedala nella storia che dà l’idea di rivivere un tempo andato, un Mondo Piccolo che non è un luogo sulla mappa ma un’ipotesi geografica che si muove assieme ai suoi «smilzi», in su e in giù lungo il fiume, per quella «fettaccia» di terra che sta tra il Po e il resto del mondo.
Un’umanità reale dove c’è spazio per tutti, buoni, meno buoni, normali, strambi, diavoli e anche santi che tali sono anche senza magari saperlo. Dove molte piazze sono ormai vuote, dove i bar sono gestiti quasi tutti dai ragazzi cinesi, dove i «nostri» giovani sono sempre meno, dove gli anziani sono seduti ai tavolini e giocano a carte, dove si bestemmia per mettere le virgole nei discorsi. E sull’argine c’è un mondo che pedala per lavoro, per turismo, per sport, verso il futuro. Come Daniele e Francesco, suonatori di strada che, chitarra in spalla e stereo acceso, vanno verso Brindisi e la Grecia ad imparare le note del sirtaki oppure pedala sfiorando la leggenda del ciclismo che fu. Così passi da San Nicolò Po e ti fermi davanti al cartello che ricorda che fu il Paese Natale di Learco Guerra, la «locomotiva umana», fisico possente, passista formidabile, umile muratore che a 27 anni diventò ciclista professionista e nella sua breve carriera trovò il modo di vestire la prima maglia rosa della storia, di vincere una Sanremo, un Lombardia, un Giro e 31 tappe nella corsa rosa.
Vola via in un attimo San Nicolò, perché il mare è ancora lontano, tutto da conquistare. Vedi l’asfalto ruvido che scorre sotto le tue ruote, senti lo scrocchiare dei brecciolini, ti sciogli sotto un sole caldo che rende insopportabili anche le poche, umide folate e capisci che sull’argine del Po il tempo scorre più lento che altrove. Un argine e il fiume accanto. Sempre accanto che non ti abbandona mai. Chilometri e chilometri verso il mare fino a Porto Levante che sembra un pezzetto di Irlanda, dove il Po e l’Adriatico si abbracciano, dove vivono un centinaio di anime, dove si pesca e si naviga, dove per passare da una sponda all’altra serve un passaggio, un battello, un traghetto, un qualcosa che galleggi e su cui caricare le bici per non tornare a pedalare a ritroso per una quindicina di chilometri con il vento in faccia verso la Romea, quel «mostro» d’asfalto dove la civiltà s’ingolfa e che sembra lontana un secolo dalla quiete di questa foce.
Un argine e le bici sopra con le ruote che avanzano e spesso si perdono perché i cartelli non ci sono, perché le strade si dividono, perché nel nulla è anche facile e piacevole confondersi. Sotto le ruote la pianura, gli spazi infiniti, tre regioni che si intrecciano e si toccano, il Polesine e un delta che è a tratti uno spazio metafisico dove la realtà è ciò che vuoi tu. Finalmente. Il senso più intimo di viaggiare, di pedalare, di viaggiare e pedalare insieme, è quello che ti tieni dentro. Te lo tieni per te per una strana forma di antica timidezza che ti permette di mantenere sacro uno spazio dove non vuoi visite. Con una mappa, senza troppi selfie, senza troppo smartphone, senza squilli di trombe. È quello che fai per te. Tua la gioia, tua la fatica, tuoi i chilometri, salite, discese, pioggia che ti segue, ti insegue e ti mette anche un po’ di ansia. Capita. Il senso più intimo del pedalare è la tua storia, il tuo presente che cambia di giorno in giorno. L’aspettativa che si trasforma, che diventa qualcos’altro, diventa ciò che vuoi tu. Cambiano le velocità e le distanze. Si inseguono i luoghi che il viaggiare in bici rende più familiari.
La vacanza è il viaggio stesso, con il suo scorrere faticoso, con le deviazioni inaspettate, con le soste impreviste perché si incontra un borgo, una trattoria, uno scorcio che merita una foto. Con il sole, con la pioggia, con gli imprevisti perché capita (eccome se capita…) di forare e di riparare, di sporcarsi le mani di grasso, di dovere fare i conti con qualche bullone che si allenta, di dovere metter mano a brugole e cacciaviti. E così Ferrara, città d’incanto, sembra più vicina di quel che è. Così Cremona dal Torrazzo al Duomo, dal Battistero al Palazzo del Comune, alla Loggia dei Militi, alle sue architetture medioevali che sui pedali si possono godere da vicino senza paure di divieti, senza ansie di posteggio, fermandosi dove si vuole.
E così Mantova che, arrivando al tramonto con un cielo grigio e un vento di traverso che fa viaggiare velocissime nuvole gonfie di pioggia, si presenta da lontano come Mont Saint Michel in Normandia. E così Rovigo un po’ veneziana e un po’ austriaca con la sua statua di Garibaldi che sarebbe dovuta finire a Roma ma qui è rimasta «esiliata» perché l’Eroe dei due mondi mette i piedi sulle staffe fatte con la forma della Corona e ciò alla giovane Monarchia non piacque granché. E così Polesella dove ci si ferma per il «fritto di fiume» servito su un barcone ancorato a riva o Fratta Polesine con le sue ville del Palladio che incontri quasi per caso, sbagliando un incrocio, ritrovandoti all’improvviso di fronte alla bellezza di costruzioni senza tempo.
Magia del viaggiare lento che diventa il modo per scoprire ciò che non immagini, per riprenderti il tempo, per stare fuori dal caos, dal traffico, dagli scarichi che ti avvelenano i polmoni e il cervello. Pedalare spesso mette a posto un sacco di cose, di casini quotidiani, di pensieri. E allora svaniscono come d’incanto i guai e la fatica, si va a sensazione e non ci si prova neanche più a fermare il tempo. Non si può fermare il tempo e allora si pedala come si vuole e come si può, magari un po’ meno veloce magari un po’ più a lungo. Magari non in gruppo, in direzione ostinata e contraria ma senza esibirsi, senza fare gli sbruffoni. Forza e pazienza. Un po’ come il fiume che scorre accanto. Lento, paziente, imponente e inarrestabile…