“Muoversi è una medicina e fa crescere il Pil”
E’ l’intuizione che fa la differenza. Cogliere l’attimo, trasformarlo nell’opportunità di una vita, costruircela sopra una vita. O un’azienda. Magari partendo da un progetto pensato e realizzato nel garage sotto casa a Cesena perché poi molte grandi storie industriali cominciano proprio così. È la storia di Nerio Alessandri, 54 anni, ingegnere con la «fissa» dello sport, il più giovane cavaliere del lavoro nella storia della nostra Repubblica, l’uomo che con due milioni e 800mila vecchie lire, i risparmi che aveva messo da parte prima di sposarsi, ha creato nel 1983 la Technogym. Un colosso mondiale che oggi dà lavoro a più di duemila dipendenti, che ha 14 filiali tra Europa, Stati Uniti, Asia e medio Oriente e che fa «muovere» con i suoi attrezzi 35 milioni di persone. Una sfida quando ancora le sfide non si chiamavano start up, cominciata proprio scrutando una macchina per l’impacchettamento della frutta in un’azienda di Forlì dove a vent’anni lavorava per mantenersi agli studi. Intuizione e passione, gira tutto intorno lì. Che fanno la differenza e soprattutto fanno crescere un’idea che diventa il primo «tapis roulant» costruito assemblando materiali d’occasione che poi diventano 150 commesse commissionate da una palestra del Cesenate. Ed è come quando su un «tappeto» si schiacchia lo “start” per iniziare a muoversi. Si comincia piano, un po’ incerti poi piano piano la velocità aumenta e diventa corsa. È l’inizio di un’avventura che oggi è diventata patrimonio industriale italiano. Come sempre chi ci crede ce la fa. Anche se molto spesso crederci non basta… «Certo le intuizioni sono importanti ma per costruire qualcosa, per fare impresa oggi in Italia è l’approccio che fa la differenza».
Le opportunità ci sono o bisogna essere capaci di andarsele a cercare?
«Le opportunità sono sempre le stesse. Così era negli anni passati, così nel 2010, così oggi e così sarà nel 2020. Sono gli scenari che cambiano. Ma la differenza la fa sempre l’atteggiamento. Non è un’era che decreta un successo».
E per farcela come dev’essere l’atteggiamento?
«Fare impresa in Italia oggi è come correre su un tapis roulant con un zaino sulle spalle pieno di pietre».
Quindi è dura?
«Certo non è un vantaggio ma non è detto che sia un male. E allora torna il discorso del giusto approccio. Per molti cominciare un’avventura così è negativo, è un problema perché in Italia siamo abituati a ragionare così. Per qualcun altro invece, soprattutto se parliamo di start up, è un bene perché significa che c’è meno concorrenza».
Una sorta di selezione naturale?
«Non so dire, però spesso una situazione di difficoltà può diventare un’opportunità. Bisogna sempre essere positivi».
Però qualcosa manca…
«Manca il “venture capital” perché sono pochi quelli che hanno il coraggio di rischiare, mancano le università che facciano da incubatori per le nuove imprese».
E ai giovani cosa suggerisce?
«Di guardare il mondo e non l’Italia, di andare all’estero però poi di tornare. E noi dobbiamo metterli in condizioni di tornare. La sfida è questa».
Per fare cosa?
«Il nostro Paese offre opportunità fantastiche per fare impresa nel turismo, nella qualità della vita, nella cultura e nel benessere. In questi settori non ci batte nessuno, anzi ci invidiano tutti ma noi non siamo più capaci di capitalizzare».
Questo però non è un problema da poco.
«No, manca anche un po’ di fiducia. Fare impresa è come fare i figli, se non c’è fiducia non ci si prova».
Ma la sua è l’azienda dove c’è il più alto numero di dipendenti con figli.
«Vero. Siamo anche una delle aziende dove l’età media è più bassa, trent’anni o poco più».
E questo cosa significa?
«Significa che il futuro è lavorare con i giovani. Si impara molto da loro. Sono più fluidi, più veloci nel pensiero, sono digitali».
Però molti dicono che i giovani oggi sono una generazione comoda, un po’ viziata.
«Non è vero. Vedo tanti giovani in giro che hanno fame, che hanno curiosità, voglia di esplorare. Il vero problema è che spesso si spengono perché non viene dato loro un progetto. Non viene dato loro un sogno».
E come si fa?
«Bisogna sempre guardare un po’ avanti, giocare d’anticipo. La chiave è l’innovazione. Anche nei prodotti ovviamente. Le faccio un esempio: se uno dei nostri attrezzi ha successo, se va bene sul mercato per noi significa che va cambiato. Lo dico sempre ai miei collaboratori: “Se funziona vuol dire che è già vecchio”. Ora siamo un’azienda digitale e i display dei nostri prodotti devono essere capaci di dialogare con smartphone, internet. Guai a fermarsi».
E a Rio per le prossime olimpiadi Technogym allestirà il villaggio olimpico a barra da Tijuca.
«Sì, è la nostra sesta partecipazione ai Giochi olimpici dopo Sydney, Atene, Torino, Pechino e Londra. È motivo di orgoglio ma anche uno stimolo. E poi nello sviluppo dei prodotti il feedback che viene dall’agonismo e dagli atleti per noi è fondamentale. Come la collaborazione che da anni ormai va avanti nel calcio con Barcellona, Real Madrid, Milan, Inter e Juentus nel calcio. Anche se i nostri attrezzi sono presenti in tutti gli spor
Giovani, anziani, sportivi, salutisti e mode. Come è cambiato il concetto di benessere in questi anni?
«È cambiato totalmente. Oggi il vero lusso è la salute. Negli anni passati fare movimento serviva più per apparire, adesso è per stare bene. Vent’anni fa non si muoveva nessuno, dieci anni fa qualcuno, da cinque si muovono quasi tutti o almeno ci provano. È cambiata la cultura del benessere che è diventato un po’ come lavarsi i denti. Il movimento è un medicinale potentissimo che aiuta testa e cuore».
Un farmavo quindi?
«Io ho una mia teoria ed è quella che il Pil di un Paese cresce in relazione al movimento delle persone. Se in Italia tutti facessero le scale anziché usare gli ascensori o tutti andassero a lavorare in bici noi avremmo un prodotto interno lordo molto più elevato».
Non c’è la prova però..
«Èprovato che se le persone sono annoiate, pigre e non si muovono non sono energiche e non producono. Mentre nell’ipotesi contraria le produzioni migliorano».
E infatti nella sua azienda non c’è una sedia.
«No da noi non ci sono sedie. I nostri 2100 dipendenti si siedono sulle wellness ball che sono dei palloni che permettono di fare esercizio anche da seduti. Così otto ore di lavoro diventano otto ore di movimento. Da noi negli ascensori abbiamo cartelli stilizzati che invitano tutti a usare le scale, abbiamo un campo di basket, una pista di atletica, un ristorante a chilometro zero con menu vegetariano, un campus wellness, un parco da 18 ettari, una struttura in legno e vetri dove tutti possono vedere tutto…».
È la filosofia del wellness?
«Nel 1992 il wellness nessuno sapeva cosa fosse. Noi lo abbiamo inventato e brevettato. Tutti pensano sia il fitness, che è la cultura edonistica del bel corpo, e invece è tutt’altra cosa. È uno stile di vita a 360 gradi, è il sentirsi bene e in forma nella vita ma anche a casa, in famiglia sul luogo di lavoro».
Il «mens sana in corpore sano» dei latini?
«Esatto. È alla base della nostra impresa e della nostra Fondazione. Negli anni è nata l’idea di creare un campus che è il fulcro della Wellness valley in cui si è trasformata la nostra zona e coinvolge enti, scuole, ospedali, associazioni».
In concreto che succede?
«Succede che negli anni sono cresciute 48 eccellenze legate a questa filosofia che coinvolgono scuole, ospedali, progetti turistici. Con gli ospedali abbiamo messo a punto protocolli per la prevenzione e per la cura dei tumori attraverso il movimento perché l’esercizio fisico migliora ad esempio, la capacita di sopportare la chemioterapia. La stessa cosa è stata fatta con i pazienti diabetici con un protocollo ad hoc studiato con l’ospedale Bufalini di Cesena. E poi progetti per gli anziani e nelle scuole dove purtroppo lo sport è un po’ assente».
Fate quello che dovrebbero fare le istituzioni. Sono sempre i privati a doverci mettere una pezza?
«Non so dire. Non guardo mai e non mi chiedo quasi mai cosa dovrebbero fare gli altri. Penso a ciò che dovrei fare io. Ogni impresa ha un responsabilità sociale».
Perché poi alle fine qualcosa resti…
«Sì, è così. Deve essere così. Io ho sempre pensato che ogni azienda è un piccolo patrimonio dell’umanità. Ed è bello che resti un segno».