Monza, la notte delle bici…
Stringi le braccia nella felpa e cerchi di riparati come viene sotto la tettoia del paddock. In pista piove. Fosse di scena la F1 sarebbe tempo di rain, gomme scolpite da pioggia. E, con i lampi che squarciano un cielo carico di presagi sinistri, potrebbero anche non bastare. Così ti senti un po’ nudo sui tuoi copertoncini slick da ventitrè in un gruppo che va a 50 all”ora. Serve a poco sgonfiarli. Scivoli via in un sibilo che ti fa sentire davvero precario nel buio che le torce sul manubrio non illuminano, servono solo ad allungare le ombre e far luccicare le pozzanghere di un asfalto nero che chissà cosa ti nasconde. E’ l’adrenalina che ti tiene sveglio. L’adrenalina e gli spruzzi d’acqua che ti inondano il viso non appena ti avvicini per prendere la scia di chi ti sta davanti. E’ il prezzo da pagare per scontarsi un po’ di fatica, un prezzo che molti decidono di non pagare. L’adrenalina e il freddo che ti restano addosso per dodici ore e che cerchi di scacciar via infilando tutto ciò che si è bagnato sotto i getti di aria calda dei bagni che servono per asciugarsi le mani. E’ quasi una processione. Che accompagna i pensieri in un corsa che non è solo una gara di ciclisti più o meno forti, più o meno coraggiosi, più o meno amici. La Cycling marathon nell’Autodromo di Monza è una storia da raccontare. Ognuno scrive il capitolo che può. Quello che è nella sue testa e nelle sue gambe che spingono su rapporti lunghi lunghissimi e spesso “fissi” perchè anche il ciclismo ha i suoi riti e le sue tribù. Una notte che non finisce mai. Notte di pedalate e di fatica “dal tramonto all’alba” senza mai fermarsi. Notte di facce stanche e felici. Di facce che si raccontano da sole e di sguardi che si cercano oltre il muretto della pit-line per segnalare un rientro, per salutare un passaggio, per applaudire chi ha il coraggio di giocarsela tutta da solo. E sono tanti. Gli altri si danno i cambi. Si aspettano, rientrano, si spingono come dopo la sostituzione di una ruota per ripartire e si rincorrono per non perdere il treno dei primi che non fa fermate. Si capisce quando arriva. Chi è in pista lo sente . Perchè le ruote in carbonio hanno quell’inconfondibile rumore sordo e poi perchè vede le luci che allungano la propria ombra fino a farla scomparire nel momento del sorpasso. Che dura un attimo. Difficile attaccarsi se non si ha voglia di rischiare. E in un attimo torna tutto di nuovo buio, in silenzio, più faticoso che mai. Giri su giri, minuti dopo minuti, ore che passano lente quando stai pedalando e filano via quando non è il tuo turno. Due mondi. In pista dove fai i conti con le tue forze e le tue paure, ai box dove la notte è quella di chi aspetta. Sui materassi, nei sacchi a pelo, sui lettini dei massaggiatori al banco del un bar dove il caffè ha il profumo fragrante delle notti dove non c’è tempo per dormire. Si aspetta di ricominciare. Di ributtarsi su quella pista che pian piano si asciuga andando incontro all’alba che è lo spettacolo che tutti si erano immaginato e un po’ si aspettavano Quasi una ricompensa. Si spengono ad una ad una le luci che hanno illuminato una notte da 9o giri e da 515 chilometri che premiano chi si è messo dietro tutti gli altri. Ma mai come questa volta hanno vinto tutti. La notte vola via come sempre accade. Come è giusto che sia. “Adda passà a nuttata…” scriveva Eduardo in quel capolavoro che resta Napoli Milionaria e che in quattro parole racconta la filosofia di un popolo. E la nottata è passata anche qui. E mentre gli operai dell’Autodromo smontano le transenne e abbassano le saracinesche dei box, adesso forse un po’ dispiace…
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