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Sarà anche commerciale. Sarà che non venirci può anche essere  snob. Sarà che è anche un po’ la storia della volpe e dell’uva. Puoi correrla cento volte la maratona di New York ma ogni volta ti resta addosso. Nel cuore e sulla pelle. Ogni volta è un’emozione nuova, diversa, intensa come solo questa maratona può dare. Certo, Boston è la storia, Berlino più veloce, Londra più aristocratica e forse un po’ più chic ma correre qui tra due ali di folla che non si interrompono mai da Staten Island a Central park non ha prezzo. E’ da pelle d’oca. Ti senti il protagonista di un film. Campione anche se arranchi dopo le 4 ore. Ma volano via. Vola via anche il freddo che stamattina punge, anche se poi arriva il sole a scaldarti un po’, anche se un clima così temperato a novembre qui non se lo ricorda nessuno, anche se stamattina è più notte del solito perchè l’ora legale arriva nelle domenica giusta per regalarti un po di sonno in più. Ma non cambia. Il viaggio in bus verso il ponte di Verrazzano  è un po’ da deportati, tutti con la faccia da zombie per capire e chiedersi perchè poi uno debba spendere tutti quest soldi per venire qui a soffrire quando in questa città tutti vengono a godersela. ” Ho corso e vinto questa maratona trent’anni fa- raccontava ieri Gianni Poli presentando il percorso al gruppo di Victory in uno dei tanti biriefing pre-gara- ma ho capito cosa fosse la maratona di New York solo nel 2001 quando sono venuto a correrla tra la gente per onorare questa città dopo l’attentato…”. New York è passione. New York è il tormento di cinque ore passate su un prato a cercare di non pensare, di non sfinirsi ancor prima di cominciare, di non gelare. Sì perchè quattro, cinque sei gradi sono freddo vero se devi star fermo a contare i minuti. Ma poi passa. Passa perchè l’organizzazione è perfetta, militare. Ci sono volontari in ogni angolo, ci sono i poliziotti che ti controllano come stessi per prendere un aereo, ci sono i metal detector, ci sono  spazi e indicazioni che  non si può sbagliare anche perchè uno speaker ripete in tutte le lingue senza mai fermarsi cosa fare e dove andare. E poi ci sono i bagel, c’è la frutta ci sono the e caffe a ettolitri,  tutto ciò che serve per far sopravvivere  un popolo diviso in colori che aspetta ordinato di entrare nei cancelli. Cinquantacinquemila persone sono un città. Un fiume di gente che aspetta un colpo di cannone. Che puntuale arriva. New York è l’emozione di una camnnonata che ti trapassa il cuore, che ti porta a correre su un ponte che traballa perchè 50 mila sono tanti. Più di ciò che si pensa o si crede scrivendolo o raccontandolo. New York è la folla che ti applaude dall’inizio alla fine, la gente che balla, mamme, figlie, nonni, sudamericani, cinesi, tutte le etnie possibili perchè la globalizzazione qui non è solo un modo di dire. Sono i vigili del fuoco che si fermano ad incitare, i poliziotti con le medaglie delle passate maratone al collo che ti danno il cinque, i taxi ai lati della strada, un gruppo con le Harley  e i giubbotti in pelle che beve birra e fa la faccia truce ma è tutta una recita,  la musica, i profumi dei baracchini degli hot dog,  i brown block che una volta erano popolari e oggi sono diventatii chic. New York sono i manicotti tirati giù dopo una mezza che non è metà dell’opera perchè la seconda metà è quella più dura, perchè la prima e la quinta strada sono in salita e non finiscono mai, perchè Central Park sono le ultime tre miglia senza un metro di piano e perchè anche dopo il traguardo la fatica non è finita. Chi ha la borsa da ritirare va a destra, chi ha solo il “poncho” da mettersi addosso viene dirottato verso sinistra. Tutti in coda.  A sfidare il freddo che adesso si sente di più, stanchi, sfiniti, felici, ubriachi di fatica e di gioia per tutto ciò che si riporterà a casa custodito nella mente per mesi e forse anni. Chi c’è stato non dimentica più, chi ritorna scopre che ogni volta c’è un nuovo romanzo da scrivere. E non c’è mai una fine….