C’era una volta il ciclismo del Tour, del Giro, delle classiche e dei mondiali. Al massimo di un Baracchi o di una Sei Giorni. Punto. Un ciclismo dove s’improvvisava un po’, dove non era tutto programmato, incastrato, fissato in un calendario schizofrenico che non santifica più neppure una festa. C’era una volta un ciclismo che viaggiava sulle ammiraglie tra Italia,  Francia e Belgio e che neppure si sognava di attraversare gli Oceani o di sprintare tra le sabbie dei deserti in una stagione che non finisce mai. C’era una volta il ciclismo della bella gioventù, gente semplice e forse più spensierata, meno connessa, meno attenta alle mode, al look, agli sponsor sulle magliette, ai followers,  ai social, che faceva fatica a mettere insieme tre frasi in un’intervista altrochè twitter e instagram tutti i giorni a tutte le ore.  C’era una volta un ciclismo di grandi garroni  e di grandi gambe, di muscoli grossi e mani grosse. Gente più “grezza”, lontanissima dalle tecnologie, dalle preparazioni esasperate, da nutrizionisti, medici, specialisti,  tattici, procuratori, gps, computerini che controllano watt, pedalate, che ti dicono quando devi scattare, quanto puoi osare, se devi andare in fuga oppure tirare i remi in barca. E che un po’ pensano per te,  che ti cancellano l’istinto e la fantasia. C’era una volta un ciclismo dove il business era importante ma non era tutto, dove c’era solo una tv ( quella di Stato) a raccontarlo e si viveva nell’attesa di quel collegamento del pomeriggio su Raidue sperando che nebbia o maltempo non tenessero gli elicotteri a terra. C’era un volta il ciclismo dove gli sponsor avevano la faccia appassionata di qualche mobiliere della zona, dove giravano meno soldi, dove cordate, multinazionali, fondi ed emiri non erano pervenuti. C’era una volta un ciclismo che forse non era lo show che è diventato adesso ma che forse era più libero, più capace di uscire dagli schemi, dove le regole del gioco erano dettate più dalla passione che dalle logiche economiche e di mercato. Va così e non potrebbe andare altrimenti, non si può fermare il mondo.  Va così perchè uno sport popolare che  diventa un “affare” non è più solo lo spettacolo di una compagnia di paese dove gli attori recitano a braccio. C’è un copione preciso e tutti sono chiamati a fare la loro parte: nulla di più e nulla di meno. Ingranaggi di un meccanismo che gira a mille e non si deve inceppare. Finchè poi le aspettative diventano eccessive e salire ogni sera sul palcoscenico diventa un peso che toglie serenità e sorriso. Tom Dumoulin a 30 annni, dopo aver vinto un Giro e un mondiale, dice stop. C’è poco da riflettere: scende dalla bici e non sarà più un corridore per ora ma quasi certamente per sempre: “Sento che è diventato molto difficile per me orientarmi come ciclista. Voglio che la squadra sia felice con me, voglio che gli sponsor siano felici, voglio che mia moglie e la mia famiglia siano felici. Voglio il bene di tutti. Ma io cosa voglio davvero? Voglio ancora essere un ciclista? Se sì, come? Devo scoprirlo…”. C’era una volta il ciclismo che mandava un bacio alla mamma felice per essere arrivato primo e che si sdraiava sul lettino davanti a un massaggiatore in canottiera con l’asciugamano sulle spalle.  Ora è finito su lettino dello psicanalista e forse ha perso un po’ della sua poesia…