Dentro o fuori? Può lo sport chiamarsi fuori dalla politica, da questa guerra in Ucraina così assurda e così vicina? No, non può. E allora si può discutere all’infinito sul significato dei simboli.  Se ha valore che oggi le partite del campionato siano iniziate  cinque minuti dopo? Se ha valore spostare la finale della Champions da San Pietroburgo a Parigi, se hanno valore le squadre che scendono in campo con maglie, cartelli, scritte di condanna. Se ha valore l’esultanza triste di Ruslan Malinowskyi dopo i due goal all’Olimpiakos. Se ha valore che l’allenatore italiano dello Shakhtar Donetsk, Roberto De Zerbi,  sia rimasto lì con i suoi ragazzi e se quello rumeno della Dinamo Kiew,  Mircea Lucescu, abbia fatto la stessa cosa nell’altra città sotto tiro. Si può discutere se serva o meno a qualcosa scriversi “no war” su una guancia,  stringersi a cerchio a centrocampo, se basta inginocchiarsi… Certo è più efficace, come qualcuno sta facendo, rinunciare alle sponsorizzazioni russe, far saltare accordi e contratti, annullare il gran premio di Formula Uno a Sochi. Ma anche il resto conta. E vale. La simbologia dello sport ha un valore alto. Sono simbolo gli atleti per ciò che fanno e, nel bene e nel male, vengono portati ad esempio ed emulati. I regimi fascisti in Italia e Germania li presentavano alla stregua di guerrieri della nazione. Sono simbolo certe vittorie e certe sconfitte perchè raccontano storie che si tramandano e perchè la letteratura di propaganda bellica ha spesso utilizzato metafore sportive per descrivere o giustificare i conflitti.   Sono state un simbolo le imprese sportive negli anni della Guerra Fredda, “sfide” tra i sistemi capitalistici e quelli comunisti.  E’ simbolo lo sport  nella storia utilizzato spesso da governanti e dittatori come strumento di  celebrazione  del potere,  della forza e di presunte superiorità militari e non solo militari. Lo stesso Pierre de Coubertin, fondatore delle moderne Olimpiadi,  considerava lo sport come strumento di pacificazione ma anche mezzo per per promuovere nella gioventù francese la disciplina militare. Durante la Prima guerra mondiale più volte nella tregua di Natale vennero organizzate nella “terra di nessuno” partite di calcio tra squadre di nemici, come espressione della loro “buona volontà”. E qualche volta lo sport è riuscito anche a fermarli i conflitti sebbene temporaneamente come ad esempio  alla fine degli Anni 60 in Nigeria quando l’arrivo di Pelè  decretò una tregua nella sanguinosa Guerra civile del Biafra.  Sono state sfide politiche Iran-USA ai Mondiali di calcio di Francia 1998 ”  e quella tra  Argentina ed Inghilterra nel giugno del 1986, allo Stadio Azteca di Città del Messico che regolava i conti dopo il blitz inglese alle Malvinas. E’ un simbolo politico assoluto è il gol di mano di Diego Maradona: ” la mano de Dios”.  E si potrebbe continuare. Sport e politica s’intrecciano, si scontrano, si affrontano ma seguono una strada comune.  Come aveva scritto George Orwell in “The sporting spirit” nel 1945 pochi mesi dopo la fine del secondo conflitto mondiale raccontandone più le miserie che le virtù,  lo sport è “Una guerra senza spari”. Quindi lo sport non può chiamarsi fuori. Neppure da ciò che sta accadendo in Ucraina.