Sono uno spettacolo le paralimpiadi. Per ciò che sono dal punto di vista agonistico e per ciò che rappresentano perchè spiegano meglio di tanti discorsi quanto volontà e tenacia possano sempre fare la differenza. E poi gli atleti azzurri tra Tokyo e Pechino sono stati fantastici, con una sessantina di medaglie portate a casa, record di sempre. Gioia ma non assoluta. Ed era stato stesso presidente del Comitato paralimpico italiano Luca Pancalli questa estate ad indicare la via per non perdere di vista quella che è la realtà (non semplice) di tutti i giorni per chi deve fare i conti con la disabilità: «Per permettere al nostro movimento di crescere ancora servono aiuti concreti- aveva spiegato il presidente – Non basta gioire per le vittorie degli azzurri. Dobbiamo garantire a tanti giovani disabili la possibilità di accedere al mondo dello sport. Dobbiamo aiutare loro e le rispettive famiglie e sostenerli nei costi per gli ausili». E questo dal punto di vista sportivo. Ma c’è un’altra realtà, sicuramente più drammatica, contro cui i disabili «gareggiano» quotidianamente. Ed è quella delle barriere, dei limiti architettonici che incontrano, delle scale che non riescono a scendere, dei negozi in cui non possono entrare, dei mezzi pubblici su cui non riescono a salire. Milano, città europea per vocazione e rappresentazione mediatica, non fa eccezione. Anzi. Due sere fa, in Porta Venezia, Rebecca, che è una giovane ragazza milanese affetta da Sma, non ha potuto prendere un mezzo pubblico perchè la distanza tra il predellino del tram e il marciapiede fermava la sua carrozzina e il suo diritto alla normalità. Pochi centimetri ma in realtà un abisso. La distanza siderale che separa una città veramente moderna ed inclusiva da una che non lo è. Il senso della bandiera paralimpica che ieri a Pechino è stata messa nelle mani del vicesindaco Anna Scavuzzo è tutto qui. Il resto sono chiacchiere.