Il mal di ciclismo…
Bisogna rassegnarsi: non si guarisce neppure con gli anni. Mamme, mogli, amici, fidanzate rassegnatevi tutti. La bici non cambierà il mondo e forse non risolverà i problemi di mobilità delle grandi città ma il ciclismo è una meravigliosa malattia che non si cura. Non si guarisce, non c’è modo, visto che fa tornar bambini e quindi chi si ammala non ha nessuna intenzione di curarsi. Strano sport quello dove si gode a far fatica. Uno dei pochi capaci di suscitare passione viscerale o disinteresse totale, dove non sono previste vie di mezzo. Basta una bici, una salita o uno sterrato per riavvolgere lo scorrere del tempo. Basta entrare in un negozio di biciclette e respirare quel profumo di copertoni nuovi, per ritrovarsi con gli occhi che brillano, gli stessi di quando a sette anni c’eri entrato la prima volta mano a mano con tuo padre. La prima bici non si scorda mai, ma neanche la seconda, la terza, la quinta. Tutte lì impresse nella mente o custodite in garage che a buttarle via si fa sempre in tempo. Strano sport il ciclismo perchè anche a sessant’anni ti porta ancora a rischiare l’osso del collo seguendo tuo figlio in mountainbike sulle sponde del Ticino. Perchè ti continua a far sentire “ignorante” nonostante i capelli bianchi e la saggezza profusa in tanti bei discorsi sull’agonismo che a una certa età deve lasciare il posto al piacere di pedalare per divertirsi, per star bene, per socializzare. Che poi quando uno ti supera ti si chiude la vena e buonanotte ai suonatori… Strano sport il ciclismo che ti porta e mettere sul tetto una bici che vale quasi sempre il doppio della tua auto, che è sempre l’ “affare” della vita e che guai se in hotel non te la lasciano portare in camera. Una “fede” che ti spinge a santificare i pomeriggi estivi alle tappe del Giro e del Tour e, nei casi più gravi, anche alle volate del Giro della Norvegia. C’è poi chi guarda anche le repliche, ma lì la malattia davvero non dà più speranze. Comunque non si scappa. Cascasse il mondo dalle due alle cinque ci si mette lì, davanti alla tv, e si aspetta che accada qualcosa ma anche se poi non accade nulla va bene lo stesso. Anzi meglio. Le tappe noiose sono quelle dove si fa la differenza, dove ci si conta, dove si capisce chi sono i parvenue dei pedali. I tapponi piatti dove il gruppo procede compatto, i trasferimenti infiniti dove i telecronisti fanno i miracoli per inventarsi una telecronaca che abbia un senso sono la manna per i malati che vanno alla ricerca dei dettagli, spiano bici, rapporti, occhiali, caschi, scarpe. Colgono chissà quali discorsi tra i capitani che si avvicinano alle ammiraglie e i direttori sportivi, leggono i labiali, si affascinano vedendo i meccanici che regolano un cambio sporgendosi con mezzo busto da un’auto in corsa. Noia assoluta. Noia totale che serve a scremare chi non può capire. Viene da dire che restano i migliori, quelli che conoscono nomi, cognomi, maglie, e numeri. Quelli che se Sagan allunga, capiscono al volo se sta provando la gamba o se non lo prendono più. Quelli che quando c’è il tappone dolomitico si mettono in ferie. Quelli che i tornanti dello Stelvio li conoscono a memoria…