Sul Giro delle Fiandre  si scrivono  quasi sempre le stesse cose. Ma quelle sono,  per fortuna. Che ogni volta  viene la pelle d’oca, chè un conto è raccontarle, un altro andar là viverle sulla pelle, annusarle, pedalarle,  berle e mangiarle…Va così da centosei domeniche. E oggi ci hanno pensato Mathieu Van der Poel e Tadej Pocagar a santificare questo rito laico del ciclismo di sempre. Ha vinto l’olandese, che ha fatto meglio di suo nonno Raymond Poulidor che alla “Ronde” al massimo era arrivato ottavo e di suo papà  Adrie che qui vinse nel 1986. Il fenomeno olandese, dopo aver messo dietro l’altro fenomeno Wout Van Aert due anni fa, oggi  ha messo in riga il terzo fenomeno della compagnia lo sloveno Tadej Pogacar che alla fine è anche rimasto giù dal podio, e gli sono girate parecchio, perchè ha 800 metri ha cominciato a far melina ed è stato infilato anche da Valentin Madouas e Dylan Van Baarle che a un paio di chilometri dalla fine avevano più di mezzo minuto di ritardo.  E’ andata come andata ma Van der Poel e  Pogacar hanno fatto corsa a sè. Sul Kwaremont hanno acceso il turbo e salutato i tre che erano in fuga con loro, sul Paterberg si sono affrontati in un duello rusticano senza vinti nè vincitori in attesa di regolare i conti su quel rettilineo da un chilometro che portava al traguardo. Da Anversa a Oudenaarde,  quasi come sempre perchè altre volte si è partiti altrove e si è arrivati altrove. Da Anversa a Oudernaarde dopo 273 chilometri e  18 muri, dopo aver attraversato campagne, paesini, strade e stradine dove finalmente assiepati c’erano oltre un milione e mezzo di spettatori. Il Giro delle “Fiandre”  qui , e non solo qui, è religione. Sono i muri, sono la storia del ciclismo, sono un Paese che pedala, sono birra e panini  aspettando la corsa, sono il pavè che non è un fastidio da asfaltare.  Sono i paesini che vivono addormentati per un anno e che sembrano un dipinto fiammingo, sono i cieli bassi,  gli sterrati infiniti nei boschi e la brezza del mare del Nord. Sono strappi dai nomi impronunciabili dove le bici imbizzarriscono, i muscoli pure, dove si va su come  ubriachi,  dove piuttosto che mettere un piede a terra uno se lo fa tagliare. Sono  la chiesetta del Kappelmuur che in tanti si segnano quando passano, sono le pietre grezze del Koppenberg o l’infinità del  Kwaremont dove la fatica è una smorfia che sfigura le facce o i 600 metri assurdi e decisivi del Paterberg. Non c’è una storia che inizia e finisce. Non c’è gruppo compatto, non c’è scia, non ci sono treni. Qui più che altrove ognuno per sè e Dio per tutti. Non è il ciclismo eroico perchè  “nell’inferno del Nord” la retorica è gratis e nessuno la vuole più. E’ solo storia che tiene insieme tutte queste cose e che un giorno del secolo scorso divenne leggenda ovviamente per caso, quando il giornalista, indipendentista fiammingo Karel van Wijnendaele per far pubblicità al suo giornale lo Sportwereld  organizzò il Fiandre  per la prima volta. Va così, le grandi epopee cominciano sempre per caso. E la Ronde in un secolo è diventata il riscatto della Vallonia. Non ce ne voglia Van der Poel: qui poco importa chi vince. Vince il ciclismo. Punto.