Il triathlon e il senso della “famiglia”
C’è un triathlon che continua a piacermi più degli altri che lascio agli atleti veri e a quelli che fanno sul serio. E’ un triathlon di retrovia, con pochi lustrini e poco pubblico, con le voci dello speaker in lontananza che annunciano il podio mentre tu stai ancora correndo. E’ un triathlon dove, come si usa nel ciclismo, si fatica per non finire fuori tempo, per arrivare al traguardo, per portarsi a casa la maglia nera che fu di Malabrocca ma anche di tutti quelli che arrancano in fondo al gruppo. Con gli anni, con l’esperienza dicono quelli che non vogliono fartela pesare, si apprezza anche il lento andare, che non è un disonore. Anzi. E’ il triathlon di chi sempre e comunque usa la muta, anche con l’acqua a 27 gradi, anche con il sole di luglio, anche quando, per la bella gioventù, è un peso anche il body. Ma tant’è. E’ un triathlon che sceglie linee defilate per non finire nella “tonnara”, che fatica a trovare il laccio della cerniera appena usciti dall’acqua, che non mette i piedi nudi sopra le scarpe da bici per guadagnarsi tre secondi in zona cambio. Tanto non serve. E’ il triathlon di chi “T1” e “T1” servono per rifiatare, rimettere a posto le idee, radunare le forze. E’ il triathlon di chi all’inizio corre piano, perchè la bici indolenzisce i quadricipiti e dopo corre piano lo stesso perchè a una certa età la fatica vale doppio. E’ il triathlon di chi si allena a casaccio perchè “tiene” un lavoro ma soprattutto “tiene” famiglia e quindi non “tiene” tempo. E allora un giorno si nuota, l’altro si corre, quando c’è qualche ora in più si esce in bici in un ordine assolutamente casuale e confuso. E’ il triathlon dei compromessi che poi alla fine è un alibi per giustificare il fatto di essere scarsi ovunque. E’ il triathlon delle illusioni perchè, come dice un proverbio “l’occhio del padrone ingrassa il cavallo” e allora, nella solitudine degli allenamenti ci sentiamo tutti eroi, ma poi quando ti passa a fianco tuo figlio capisci che fa un altro sport e vorresti scomparire. E’ il triathlon che mischia le carte. Che mette tutti insieme, che tiene tutti insieme: “Siamo un po’ come una famiglia- racconta Fabrizio, tecnico della ProPatria e anni fa delle giovanili azzurre- I ragazzi qui crescono facendo sport, fanno fatica e forse per questo si rispettano e cementano le amicizie, poi magari si perdono per strada ma qualcosa gli resta dentro e allora quando si ritrovano, anche dopo tanto tempo, è come se facessero sempre parte del gruppo…”. Una famiglia “allargata” che ogni tanto si riunisce, come nelle cene di Natale: Aldo Rock che non molla mai e abbraccia tutti, Alessandro Fabian sul traguardo che dopo una vittoria si coccola tra le braccia il figlioletto Alvise, Daniel Fontana che torna dopo tempo a mettersi un pettorale e ogni volta che lo speaker lo nomina scatena un’ovazione, Ivan Risti che parte in quarta batteria e a nuoto sembra un aliscafo, Alessia Orla che la classe non è acqua, Martina Dogana per cui vale esattamente la stessa cosa. Magia di un week end che il DeejayTri ha mandato in onda sulle frequenze dell’Idroscalo, fantastico stadio naturale milanese, tanto bello e tanto trascurato. Magia di un evento che svela e rivela come anche uno sport duro come questo posa diventare festa, intrattenimento, voglia i stare insieme di aprirsi e coinvolgere. Magia di uno sport che racconta quanto la fatica possa diventare un collante formidabile tra gli atleti, tra le persone, tra le generazioni. Campioni e “pippe”, giovani e anziani, padri e figli, compagni e avversari, atleti che mollano e atleti che insistono. E, nonostante l’età, non si arrendono. “Non smetterò mai di essere atleta – scrive sui suoi social un campione argentino che ha fatto grande il triathlon azzurro- E un modo di essere e io oggi sono forse la versione più coraggiosa dell’atleta che sono stato…”. Il resto non conta. Applausi.