Per sette anni quei trentotto minuti gli sono girati e rigirati per la testa. E per duemilacinquecentoventi giorni, un minuto e mezzo ogni giorno il pensiero è volato lì, a quello sterrato sul Colle delle Finestre quando stava dominando il Giro d’Italia è poi crollò sotto i colpi di uno scatenato Chris Froome che, ormai fuori classifica, partì a più di 80 chilometri dall’arrivo andandosi a prendere la maglia rosa con una impresa capolavoro.

Il tormento di Simon Yates oggi non è stata la fatica, non sono stati Isaac del Toro e Richard Carapaz che lo inseguivano e bisticciavano. Il tormento erano quei trentotto minuti da dimenticare, da togliersi dalla mente, era quella salita meravigliosa da esorcizzare, era farsi amare da quello sterrato che lo aveva respinto. Trentotto minuti che gli saranno girati e rigirati in testa anche oggi, rampa dopo rampa, tornante dopo tornante finchè non è arrivato lassù, dove erano accampati gli “apache” che, come sempre accade sulle grandi salite del ciclismo, hanno fatto il tifo per lui, per chi era passato prima di lui e per chi inseguiva.

Trentotto minuti che d’incanto sono spariti quando sulla vetta, ad aspettarlo, ha trovato Wout van Aert, il migliore degli scudieri possibili,  partito ore prima in avanscoperta in un fuga da una decina di minuti che sembrava fatta apposta per ribaltare un Giro e per scacciare gli incubi.  “Wout, Simon is now over the top” hanno detto via radio dall’ammiraglia e pocchi secondi dopo Van Aert e Yates erano una bici solo verso Sestriere.  E così mentre il sogno di Del Toro, che si era preso la maglia rosa nella polvere di Siena, svaniva poco a poco sulla ghiaia delle Finestre, Simon saliva su un treno trainato da un potentissimo locomotore giallo che lo trasportava, in un viaggio nel tempo capace di cicatrizzare le ferite,  verso la gloria. Trentotto minuti cancellati da un pianto:  «Aspettavo da anni questo momento- racconta tra le lacrime Yates al traguardo- Sono davvero emozionato, è difficile dire cosa significa per me questo giorno, è il picco della mia carriera. Non credo ci sarà qualcosa di meglio, anche perché non sono più così giovane. Ho provato tante volte in passato a vincere il Giro, era uno dei miei grandi obiettivi e per un motivo o per un altro non ci sono riuscito».

Trentotto minuti che da stasera non ci sono più. Finalmente spazzati via con una salita delle Finestre che diventa la scalata capace di raccontare un riscatto,  di un ragazzo, ormai uomo,  nato da una famiglia di ciclisti che, trentadue anni fa a Bury, nella contea del Grande Manchester, ha cominciato a scrivere la sua storia seguendo la passione di papà Jack che a nove anni ha messo lui e suo fratello gemello Adam in bici per le prime garette. Due erano le possibilità: allenarsi sul campi del Gigg Lane con i cuccioli del Bury Football club dove erano cresciuti i anche Gary e Phil Nevill,  fratelli ma non gemelli, poi diventati famosi con le maglie dello United, oppure pedalare sulle paraboliche in cemento del velodromo di Manchester. E Jack non aveva avuto dubbi.

Così è cominciata l’avventura di fratellanza ciclistica di Adam e Simon, sempre uniti,  sempre veloci e spesso vittoriosi.  Soprattutto identici un po’ come  Andy e Frank Schleck i due fratelli lussemburghesi che nel 2011 arrivarono primo e secondo in una storica salita sul Galibier.  Una strada pedalata sempre insieme da professionisti nella Orica GreenEdge che li ha visti crescere. “Adam è più estroso e nervoso, Simon è più calmo e riflessivo- raccontava tempo Vittorio Algeri, uno dei loro direttori sportivi-  Sono sempre stati così, ma fra loro vanno d’accordo, pur essendo sempre in competizione. Se uno vince, l’altro cerca di pareggiare subito i conti…”. Adam ha vinto tappe al Tour, Volta a Catalunya, l’UAE Tour, la Classica di San Sebastián e nel 2016 sempre al Tour  si è piazzato quarto nella generale.  Simon ha vinto una Vuelta, due tappe al Tour e cinque al Giro e oggi si è messo sulle spalle una maglia rosa che domani a Roma, porterà al traguardo finale. E il coronamento di un sogno forse anche la fine di un incubo. Tentotto minuti, ogni giorno un minuto e mezzo, per sette anni. Duemilacinquecentoventi giorni per regolare il conto con un colle che oggi è tornato amico