Quello della salita che non guarda in faccia a nessuno è un tema che mi affascina. In bici quando la strada comincia a salire non ci sono sconti. Così puoi chiamarti come vuoi,  avere una laurea o un 730 da nababbo ma poco importa. Si soffre tutti allo stesso modo. La salità è giusta, democratica, è un riequilibratore sociale, serve a limare le differenze e a favorire i riscatti. Credo sia un tema florido anche per la letteratura e sicuramente lo è per chi scrive di ciclismo perchè sulle grandi salite si è fatta la storia di questo sport. Così due giorni fa per la Maratona delle Dolimiti ho scritto un pezzo sul Giornale che più o meno parlava di queste cose. Perchè la maratona delle Dolomiti è diventata un po’ come la maratona di New York, un evento a cui tutti, vip compresi,  vogliono partecipare magari a volte improvvisandosi un po’. Ma la bici, soprattutto in salita, presenta sempre il conto è lì’ non importa chi sei. 

Lo diceva Parini nel «Dialogo sopra la nobiltà» e il principe De curtis, in arte Totò, nella celeberrima «Livella». Possiamo pure pensare a tutte le possibili differenze tra ceto, classe sociale e dichiarazione dei redditi, ma alla fine, dopo una vita più o meno vissuta siamo sempre tutti uguali! Senza scomodare i grandi e restando con i piedi ben piantati per Terra c’è un altro momento in cui le differenze si annullano. C’è un altro istante dove contano solo il viso che hai, le sue smorfie e la forza che le tue mani hanno per stringere un manubrio. Quando sei in sella a una bici da corsa e ti stai arrampicando su una salita. Lì non vale più nulla, non il tuo codice fiscale, non la tua laurea. Non il tuo conto in banca o i tuoi debiti. Sui pedali la soglia di dolore è uguale per tutti, una «Livella» che diventa sempre più inesorabile metro, dopo metro, chilometro dopo chilometro, tornante dopo tornante. Ti ritrovi a guardare all’insù sperando che sia finita e invece si continua nell’elogio di una sofferenza che più diventa insopportabile più diventa epica e giusta. Così ti puoi chiamare Agnelli o Pautasso e non ti cambia niente.
La Maratona dles Dolomites che si corre oggi non è una semplice corsa in bicicletta. È la regina delle Granfondo, le gare di lunga distanza, ma è anche un po’ la corsa dei sogni. Difficilissimo trovare un pettorale. Anche quest’anno poche ore dopo l’apertura delle iscrizioni le richieste erano più di 25mila. Poi si incrociano le dita. Poi si spera che il proprio nome venga sorteggiato tra i novemila che saranno al via. Non si guarda in faccia nessuno. Dentro o fuori, senza sconti. Così come non si è guardato in faccia chi lo scorso anno stava per vincere ed è stato squalificato per aver gettato a terra una borraccia a pochi chilometri dal traguardo. Michil Costa che di questa maratona è mente e cuore è inflessibile nel proteggere l’ambiente della sua Alta val Badia: «Ogni nostra azione deve fare parte di uno sviluppo sostenibile.
Ognuno di noi ha la sua parte di responsabilità e deve essere consapevole dell’importanza di ogni vita. Perché la vita ha ragione, in ogni caso». Così chi getta qualcosa a terra finisce la sua corsa nel punto esatto in cui si trova. E anche qui chiamarsi Agnelli o Pautasso è la stessa identica cosa. Ma torniamo alla fatica. Campolongo, Pordoi, Sella. E ancora: Gardena, Giau e Falzarego. Nomini questi «passi» a un appassionato di ciclismo e vedi i suoi occhi brillare. Lassù volano solo le aquile, i campioni che hanno scritto la storia tinta di «rosa». Sono le Dolomiti del Giro, dove ogni pedalata è sudore e dove i chilometri scorrono lenti quasi a voler sublimare la fatica per goderne fino in fondo il sapore. Salire lassù spingendo sui pedali ti avvicina alla tua pagina di storia, al tuo limite. Qualunque esse sia, diverso ma uguale per tutti. Così ti puoi chiamare Rodolfo De Benedetti, James Murdoch, Vittorio Colao, Paolo Garimberti, Antonio Marano, Gianfranco Comanducci o Linus non fa nessuna differenza. In sella di fianco a te che stai facendo la stessa identica fatica c’è un uomo (o una donna), un pettorale, un numero, una bicicletta in carbonio e un cambio Shimano o Campagnolo che sale sempre più in alto nella ricerca vana di un rapporto che più leggero non si può.
La nuova parola d’ordine è che la Maratona dles Dolomiti almeno una volta nella vita bisogna farla, un po’ come quella di New York che però si corre a piedi. Così ci provano tutti anche campioni molto più a loro agio sugli sci, sugli anelli, davanti a una rete da volley o su una canoa: da Giuliano Razzoli a Manfred Mölgg, da Iuri Chechi a Antonio Rossi a Cristian Zorzi a Filippo Magnini a Pietro Piller Cottrer a Karen Putzer a Maurizia Cacciatori a Isolde Kostner, Ciccio Graziani e a «penna bianca» Fabrizio Ravanelli. All’inizio fu Edoardo Tavella, presidente del ciclo club dell’Alta Val Badia e innamorato di ciclismo. Aveva partecipato a una gran fondo in Austria e decise di far la stessa cosa sulle sue montagne. Così, con moglie e figli a dargli una mano, fissò il quartier generale della maratona nel suo albergo a Pedraces e partì. Era il 12 luglio del 1987, una vita fa. E tutto girava attorno all’hotel della Posta: organizzazione, consegna dei pettorali, partenza, arrivo e premiazioni. Al via 166 «temerari» che dopo sette passi dolomitici e 175 chilometri tornarono a Pedraces stanchi ma felici come si dice in questi casi. Una sfida dura che un anno, con la neve, diventò epica e appassionò i tedeschi che se ne innamorarono in tv. Da allora, dopo gli italiani, sono i più numerosi e anche quest’anno non hanno tradito.
Novemila e 271 partenti e non uno di più in rappresentanza di 42 nazioni. I partecipanti italiani sono in maggioranza con 5.040 iscritti, seguiti da Germania e Paesi Bassi. Ma c’è anche chi arriva da Giappone, Australia, Cile, Russia e Qatar. Qualcuno anche dal Sudafrica, alla faccia dei mondiali di calcio. Scende in campo con tutte le forze anche la Rai che seguirà la corsa per sei ore in diretta, dalle sei del matttino a mezzogiorno con le telecamere mobili proprio come la Giro o al Tour. Insomma un evento. Per più di dieci anni la Maratona «Dles Dolomites» è stata un’impresa per appassionati «tosti». Mai uno sconto, mai il percorso è sceso sotto i 174 chilometri che con le salite diventano quasi un tormento anche per le gambe più allenate. Poi, piano piano, qualcosa è cambiato, i chilometri sono diminuiti a 138 per il percorso lungo, fino ai 55 del più accessibile. Così il sogno di scalare le cime del Giro si è fatto più vicino. Senza differenze. Tutti con la stessa fatica e la stessa faccia di fronte alla salita
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