Luca Panichi, fiorentino, 45 anni,  è un ex atleta e ora fa l’allenatore.  Mercoledì durante l’udienza generale in piazza San Pietro,  ha incontrato e abbracciato Papa Francesco.   Gli ha chiesto una preghiera e una benedizione per una nuova corsa che sta facendo e a cui avrebbe sicuramente preferito non iscriversi: la corsa contro il cancro. Panichi ha donato a Papa Bergoglio una maglietta della squadra che allena, l “Atletica Futura” di Figline Valdarno e una copia del libro che ha scritto con Vania Piovosi: “La mia corsa continua…”.  Il Papa lo ha abbracciato e Luca è scoppiato in lacrime per l’emozione. “Con questo gesto ho voluto anche consegnare al Papa tutta la fatica e la passione che ho sempre messo nell’atletica e, insieme, tutta la mia speranza”. “La mia corsa continua” (pagine 142) è in vendita a offerta libera e il ricavato va al reparto oncologico dell’ospedale Santa Maria Annunziata di Firenze e all’associazione di volontariato “Regalami un sorriso”. La prefazione è di Stefano Mei, indimenticato campione dell’atletica, amico ed ex compagno di squadra di Panichi. “Se questa contro il cancro è una gara – scrive Mei – Luca è quello giusto per vincerla: ha il carattere, la forza, la testa. E poi  gli brillano gli occhi!”.

 

Per trent’anni ho fatto l’atleta, correndo gare tra i 1500 metri e la maratona. Oggi, a quarantacinque anni, continuo a occuparmi di atletica come allenatore. E pensavo che, vista l’età, la mia carriera da agonista fosse finita. Mi sbagliavo. Il 14 dicembre 2012 ho sentito il colpo di pistola che ha dato il via alla gara più difficile e dura della mia vita. Stavolta il  mio avversario non è un velocissimo kenyano. Ho a che fare con il cancro. Un adenocarcinoma ai polmoni. La sentenza, secca e precisa come il verbale del giudice di gara, emessa prevede che io campi altri cinque anni, con solo il cinque per cento di possibilità di guarire.
La mia corsa, dunque, continua. Nella gara che ora sto vivendo a perdifiato mi trovo a competere con l’avversario più forte che abbia mai affrontato. Stavolta la corsa è solo per il primo posto, non si può puntare ad altro. A volte mi sembra di essere in vantaggio contro il mio acerrimo rivale. Aumento il ritmo di corsa e lui ne risente. Altre volte, come accade in una corsa lunga e di resistenza, sono io ad avere il fiato corto, ad avvertire la fatica. In tanti anni di gare ho imparato a non mollare mai, a resistere proprio quando sembra che la crisi sia irrisolvibile. Il fascino della corsa sta anche nel confronto continuo con i propri limiti per superarli. In questa gara decisiva non sono solo. Ho i miei tifosi. La mia famiglia, mia moglie e i miei due figli Ilaria e Federico. E non dimentico le parole del più piccolo che, con lo stupore dei suoi 14 anni, mi ha chiesto a bruciapelo “babbo, tu guarisci vero?”. E’ una frase che ripeto quasi come un mantra, nello stile dei maratoneti, correndo spalla a spalla con e contro il cancro. E tra i miei tifosi ci sono anche i ragazzi che continuo ad allenare in pista. cercando di comunicare la bellezza dello sport vero. Sto riscoprendo, soprattutto, che la tabella perfetta per trovare l’andatura giusta verso il traguardo è la fede in Dio. L’esperienza della malattia ha reso più forte la mia fede perché ha cambiato me. Ho ritrovato il tempo di  pregare, di leggere una pagina del Vangelo. Preso dalle faccende della vita avevo messo un po’ da parte il Signore. Se io mi ero allontanato, Lui è sempre stato con me. Ora la vita terrena mi appare come un test in preparazione alla corsa celeste, l’incontro con Dio: quella corsa che non finisce mai e, attraverso il percorso della fede, ha il Paradiso come traguardo. So anche di avere un’ottima “lepre” – come diciamo in gergo noi atleti – una guida che scandisce il passo e indica la strada: è la Madre di Dio. Sono molto devoto alla Madonna di Rugiano, santuario vicino a Rufina, il mio paese natale. Quando ho saputo della mia malattia sono andato subito lì e ho pregato davanti alla chiesa, nel punto esatto dove l’8 settembre 1944 mia nonna perse la vita pestando una mina sistemata dai tedeschi. Lo ammetto, ho faticato ad accettare la malattia perché io dovevo stare bene: il mio tempo era troppo prezioso e la programmazione della stagione invernale alle porte. Poi ecco che la clessidra del mio tempo improvvisamente si è capovolta. E ho fatto appello all’atleta. Mi sono detto: non posso lasciarmi andare, devo trovare le motivazioni giuste, proprio come ogni sportivo. Ora le giornate passano e la gara contro il cancro è in pieno svolgimento. L’ospedale dell’Annunziata, precisamente il reparto oncologico, è il mio nuovo campo di allenamento. Oltretutto è vicinissima la mia vecchia pista di atletica, quella pista dove rincorrevo i miei sogni di atleta. Sì, il reparto è ora la mia nuova pista. Infermiere e capo sala sono i giudici che controllano il regolare svolgimento della mia corsa. Per la prima volta in vita mia mi allenano due donne: due medici professionalmente e umanamente eccezionali. Proprio come dovrebbe essere un vero coach. Da loro ho tantissimo da imparare.  Anche le chemioterapie sono gare che non avevo messo in calendario. Ma che devo fare. Sono corse al buio, con la speranza di trovare una luce. Anni fa progettavo di andare a correre la 100 km nel deserto. Bene, la chemio è proprio quella gara nel deserto che non ho mai corso. E in questo deserto ho scoperto di essere ancora un atleta, consapevole che con la passione e la testa si può fare la differenza. Ho capito che il cancro lo posso sfidare e che lui sa che io ci sono e faccio la mia gara. Sì, il cancro ha capito che con me se la dovrà giocare fino all’ultimo metro, perché io non mollo. “Attacca” è sempre stato il mio grido di battaglia in gara. Mi sono sempre messo in testa a tirare il gruppo, anche quando sarebbe stato meglio seguire una tattica più accorta. Ma non sono mai stato un runner di retrovia. Ho corso con il vento in faccia, senza centellinare le energie, per far saltare il banco e sovvertire i pronostici. Proprio quello che serve ora: sovvertire il pronostico. I pensieri durante le terapie mi riportano alle tante gare corse, vinte e perse. Alla vittoria nella classica fiorentina “Notturna di San Giovanni” con un record ancora imbattuto persino dai fenomeni africani, alla maratona di New York e a quella volta che sono sceso sotto i 30′ sui 10.000 metri, meritando la convocazione nell’atletica che conta. E anche una proposta di ricorrere al doping che ho rifiutato. Di fatica ne ho fatta tanta, ma la corsa non è mai stata un sacrificio: piuttosto uno stile di vita e oggi Dio solo sa quanto mi aiuta aver imparato a soffrire. Sì, le chemio sono proprio una gara. Alle 8.30 c’è la punzonatura e la camera d’appello. Lo start è alle 8.45 e a volte la corsa è a cronometro – io ne usavo due in gara, perciò sono abituato –  così mi ritrovo solo, senza altri atleti al nastro di partenza. Poi il rito delle analisi del sangue: il mio personale controllo antidoping. Ed ecco il momento più brutto: i farmaci, le salite dure. Ma ricordo di aver vinto la Reggello-Vallombrosa due anni di fila correndo sotto i 48′, e lì di salita ce n’è tanta! La gara finisce alle 17: spremuta di arancio per integrare, doccia, massaggio e riposo.  E tiro le somme nel dopogara. Il cancro mi ha fatto morire e rinascere. Mi ha ridato voglia di vivere. Senza la malattia non avrei cambiato in meglio la mia vita. Ringraziare il cancro, sembra un paradosso vero? Ma non credo di essere matto. Piuttosto fortemente umano, realista. Oggi vedo questa vita che scorre e mi entusiasma come non mai. La mattina, quando mi sveglio,  sentire il profumo dell’aria mi rende felice e leggero: è una scossa di adrenalina impagabile. Le giornate ora sono piene, mi sento una persona che vive in modo utile. E mi rendo conto che le cose non sono mai banali. La malattia mi ha fatto capire che  la vita è un dono di Dio da affrontare con speranza e con il sorriso. Ognuno di noi, poi, deve fare con coraggio la propria corsa nella vita. Guardando sempre il cielo. 

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