Chissà se la fatica è uguale per tutti. Per chi corre pare proprio di sì. Certo qualche variazione c’è ma la sensazione di fatica può diventare un dato oggettivo su cui valutare un allenamento o su cui impostare una preparazione. Non è un dettaglio. E’ anzi il risultato  dell’ultimo studio appena pubblicato dal Marathon sport Center di Brescia del dottor Gabriele Rosa  sulla rivista Journal of Strenght and Conditioning Research in collaborazione con il dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Chieti-Pescara e con il dipartimento di Educazione Fisica dell’Università di Londrina (Brasile) dal titolo “Determination of blood lactate training zone boundaries with rating of perceived exertion in runners”. Lo studio come spiega Huber Rossi ( nella foto con un atleta keniano) , resposnsabile del centro di valutazione funzionale del Marathon center  aveva l’obiettivo di mettere in relazione dei dati oggettivi legati all’allenamento (acido lattico, frequenza cardiaca) alla propria percezione di fatica a diverse intensità a cavallo tra il ritmo della maratona e quello delle prove più brevi come una mezza maratona o una 10 chilometri in corridori amatori di differente livello. “Fino ad oggi- spiega Rossi– per leggere la prestazione di un atleta abbiamo sempre usato parametri come la frequenza cardiaca e l’acido lattico. Che sono ottimi parametri perchè ci danno valutazioni oggettive e non sono legati all’aspetto motivazionale. L’idea però era quella di aggiungere anche la percezione della fatica legata ai ritmi di corsa”. Così il test è stato effettuato su 110 atleti non professionisti con tempi in maratona tra le 2 ore e 40  e le 4 ore e mezzo.  A tutti sono stati spiegati i valori della codiddetta Scala di Borg che fissa nel parametro zero la fatica “nulla”, da 1-3 quella “lieve”; a 5 quella “moderata” a 7 queella “intensa” e a 10 quella “massima” cioè il “fuorigiri”. “Abbiamo cercato di capire- spiega il responsabile del centro di valutazione fuunzionale del Marathon center- se tutti a parità di acido lattico avessero la stessa percezione della fatica per la soglia aerobica e per quella anaerobica”. Il risultato è stato abbastanza coerente. E cioè dagli atleti più evoluti ai “tapascioni” la relazione tra l’acido l’attico e la percezione della fatica è abbastanza costante e comunque simile. Certo, c’è sempre l’eccezione ma le variazioni in percentuale sono minime. Il test ha evidenziato che in proporzione  non ci sono grandi differenze in questo rapporto tra chi corre una maratona in 2.40 e chi invece arriva al traguardo in 4.30. “La percezione della fatica quindi può essere un dato attendibile- spiega Rossi–  é un parametro in più nella lettura della prestazione di una atleta e ci permette un’analisi ancora più raffinata. E noi stiamo già inserendo la Scala di Borg nei nostri test di valutaziuone funzionale. Può servire ad aggiustare i valori che abbiamo con il lattato adeguandoli ad ogni atleta, a fornirci dati quando ad esempio non viene rilevata la frequenza cardiaca ma soprtattutto è un parametro che insegna ad ogni atleta ad autogestirsi al meglio” . L’esempio classico può essere quello delle ripetute, croce e tormento di tutti i maratoneti. Qui la percezione della fatica può aiutare a valutare un allenamento: <Se un atleta deve corre sei mille a 4 al chilometro- spiega Rossi- la sua percezione di fatica deve  essere intorno a sette. Se è maggiore significa che è magari stanco o in una giornata no. E quindi può decidere per una seduta di scarico”.  Negli ultimi 2 anni il Marathon Sport Center oltre ha prodotto anche un’altra ricerca importante pubblicata su European Jornal of Applied Physiology in collaborazione con il dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Ginevra, il dipartimento di Scienze Biomediche della Facoltà di Medicina dell’Università di Brescia e conla Facoltà di Scienze Motorie di Verona. Il titolo dello studio era “Energetics of running in top-level marathon runners from Kenya” e l’obiettivo è stato quello di capire se c’erano differenze nell’economia del gesto della corsa tra atleti kenyani d’elite tra cui Martin Lel ed altri atleti di altissimo livello con tempi inferiori alle 2h08’ e atleti di pari livello caucasici tra cui Baldini, Caimmi, Rothlin. Il risultato dello studio non aveva trovato differenze indicando quindi che le differenze di prestazione tra gli atleti Kenyani e quelli caucasici non era legata a differenze genetiche ma a situazioni sociali coem la spinta motivazionale e sociale per uscire dalla povertà, la selezione attraverso tanti atleti e l’ambiente naturale dove si allenavano.